L’arte del remake e le “Lezioni di Tenebra” di Lucia Ronchetti
Le “Lezioni di Tenebra” di Lucia Ronchetti portano in scena dopo più di trecento anni il Giasone di Francesco Cavalli. Raccontano l’intreccio eterno di desiderio e destino, oltre il genere, in un viaggio di segni e citazioni che rimandano alla storia stessa del teatro musicale contemporaneo e delle sue origini.
Nel corso degli ultimi vent’anni il teatro musicale ha esteso notevolmente le proprie possibilità espressive grazie a un impiego ragionato delle nuove tecnologie e all’utilizzo esplicito del pastiche. L’idea di un rapporto auto-referenziale con le fonti, che le ponga cioè – invece di mascherarle – al centro del contenuto stesso, è volentieri sfruttata in ambito operistico per instaurare un dialogo vivente con la tradizione scritta, non riducibile alla storia. Un gioco di specchi che esalta i riflessi della tradizione drammatica sulla nostra particolare sensibilità storica, mettendo a nudo lo sforzo interpretativo e ricalcando la ciclicità del dramma umano, così come la libertà sempre condizionata dell’invenzione. Una simile dialettica della creazione potrebbe forse emergere dal lavoro svolto da Lucia Ronchetti per la seconda realizzazione di Lezioni di Tenebra, opera prodotta dalla Staatsoper di Berlino e presentata per la prima volta a gennaio negli spazi della Werkstatt presso lo Schiller Theater, dove il gioco tra la scrittura, i rimandi, le citazioni colte e gli archetipi getta un ponte tra l’epoca di Giasone, il Seicento Barocco e il nostro tempo. Un passato, una tradizione dunque, dal quale non si vuole evadere, che vibra internamente, così come la passione di Giasone e Medea si propaga oltre il testo: una tragedia post-digitale, il cui media è il tempo, e il testo-musica il suo filo conduttore. Tuttavia, al centro del remake l’elemento tragico tout court lascia spazio al dramma della passione cieca dei due amanti.
Se il tempo è vissuto come atto, lo spazio è concepito altresì in modo strumentale come un elemento o un parametro stesso della composizione (vengono qui in mente i classici del teatro musicale del Novecento: si pensi ad esempio alla grandezza di Luigi Nono). La scenografia e la particolare disposizione dell’ensemble studiati per la nuova produzione ricordano i luoghi di un cerimoniale, o di un rito. I costumi sono essenziali, bellissimi, così come l’equilibrio tra luce e oscurità, che è mantenuto costante e conferisce allo spazio angolare della Werkstatt un carattere crepuscolare, fluorescente e in qualche modo desertico. Un vistoso elemento modulare, inizialmente compatto e misterioso, è posto al centro della scena per dare forma gradualmente, scomponendosi, ai diversi luoghi dell’azione. Il pubblico è raccolto su tre lati, ma ha l’idea di essere interno alla scena per via della posizione degli strumenti musicali che, tranne il pianoforte saldamente al centro e parte integrante della scenografia, circondano (e sovrastano) l’insieme, come a formare un secondo livello parallelo, o concentrico. I musicisti dell’ensemble interagiscono da punti distanti e due diverse altezze, coordinati con telecamere e televisori. Al centro il duo (i protagonisti) e il quartetto vocale (il Coro degli Spiriti).
Ronchetti concepisce il lavoro di riadattamento come un compito analitico, enfatizzando le tensioni drammatiche presenti nella trama originale e mettendo in connessione frammenti della partitura originale e parti musicali nuove. La tensione musicale di Lezioni di Tenebra si divide tra canoni classici e trasformazioni polifoniche, citazioni e inserti in stile moderno. I temi dell’amore, dell’inganno, della morte, e il loro intreccio tragico (magico) sono filtrati dalla sensibilità musicale di epoche diverse e trasposti in forme e modalità di ricezione tra loro incommensurabili in un patchwork post-moderno che lascia spazio tanto ad elementi di grande intensità emotiva quanto a momenti di diversione e comicità. Gli “scossoni” temporali trasmessi in questo modo dalla musica allo spazio della performance sono violenti, non mediati e governano la psicologia dei personaggi, plasmando la complessa trama dentro cui il pubblico viene progressivamente coinvolto e spaesato.
Tra reminiscenze barocche e madrigali il duo vocale è gettato in una molteplicità linguistica e simbolica inestricabile. Il ruolo della maschera è qui affascinante. Francesco Cavalli identificò i personaggi principali dell’opera attraverso un uso estensivo del registro vocale e dei suoi parametri espressivi, dando vita a un complicato intreccio di personalità e desiderio. Ronchetti sfrutta a pieno le doti timbriche di Daniel Gloger (Giasone, Isifile e Oreste) e Olivia Stahn (Medea, Egeo e Demo) alterando schemi armonici e sequenze temporali. A tratti tutto sembra fondersi in unità, come nella scena del sonno, in cui i protagonisti e il Coro degli Spiriti, ripetendo i versi “adoriamoci nel sogno”, stremati e subcoscienti, si accasciano l’uno sull’altro in un magma corporeo oscuro ed erotico.
Alessandro Massobrio
www.luciaronchetti.com
www.staatsoper-berlin.de
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #18
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