Beirut Art Film Festival. Quando il cinema è sinonimo di incontro
Si è da poco conclusa la terza edizione del festival libanese dedicato alla settima arte e alla creatività in genere. Aprendo squarci di speranza in uno scenario politicamente e socialmente complesso.
La terza edizione del Beirut Art Film Festival (BAFF) si è svolta nel bel mezzo di una crisi diplomatica – non la prima e di certo non l’ultima che il Libano affronterà – che ha visto il Paese momentaneamente sospeso nel vuoto istituzionale causato dalle improvvise dimissioni del primo ministro, date in condizioni ancora non del tutto chiarite mentre si trovava in Arabia Saudita. Il festival, giovanissimo ma già indispensabile, più che un’occasione per evadere ha funto da raccordo vivo e vitale di tutte quelle componenti che rendono Beirut una città per molti versi unica. Una città dove cristiani e musulmani, ortodossi e maroniti, sunniti, sciiti e drusi vivono, non senza divergenze settarie, pur sempre insieme. Un crogiolo di ibrida bellezza che solo la diversità può garantire, e che l’omologazione identitaria al contrario soffoca e uccide. Il festival, fondato e diretto dalla gallerista Alice Mogabgab, questa ricchezza culturale è stato in grado non solo di rifletterla ma anche di esplorarla. L’ha trasmessa ma anche problematizzata poiché oggi più che mai l’esempio di convivenza multi-confessionale di Beirut rimane una preziosa fonte di meraviglia e ispirazione. Notevole, e da esempio per i tanti festival che si esauriscono nelle città dove si tengono, lasciando le rispettive periferie a bocca culturalmente asciutta, è la volontà del BAFF di viaggiare oltre le mura della città, da intendersi in senso sia geografico che metaforico. Il festival infatti si compone in due fasi, la prima, intramuros, si è tenuta dal 14 al 19 novembre al cinema Metropolis di Beirut. La seconda, extramuros, dal 20 al 25 novembre, si è svolta in itinere e gratuitamente nelle università (sia laiche che religiose) e nei centri culturali e musei sparsi per tutto il Paese.
IL CINEMA DI HADY ZACCAK
Per chi, come chi scrive, del Libano e di Beirut aveva solo letto o sentito parlare, la mini retrospettiva del cineasta libanese Hady Zaccak è stata un’impagabile introduzione alla ricca complessità di un Paese e soprattutto di una città che accoglie l’oriente e l’occidente in un sensuale abbraccio. Tutt’altro che didascalica, la lezione del cinema di Hady Zaccak illumina la storia del suo Paese attraverso la produzione cinematografica nazionale, e viceversa. In un dialogo continuo e mai definitivo tra immagini e storia, il regista ha custodito la memoria del cinema libanese in una serie di documentari che ne raccontano le vicissitudini produttive e culturali. In Des pionniers libanais du cinéma del 1995, Zaccak ricostruisce gli esordi del cinema in Libano, dalle prime pellicole che le società cinematografiche francesi filmarono nella terra dei cedri alla nascita di un cinema nazionale. Mai etichetta fu più inadeguata per descrivere il cinema di un Paese come il Libano, la cui identità è infatti multipla, fatta di incontri come di scontri, anche violenti, di culture e religioni diverse. Lo racconta bene A History Lesson, documentario che Zaccak ha realizzato nel 2009 per l’emittente panaraba Al Jazeera. Grazie a una carrellata attenta e mai faziosa sul sistema scolastico libanese, tra scuole pubbliche e private, laiche e religiose, il regista rivela l’assenza di una storia condivisa esemplificata dalla mancanza di un testo unico di storia nazionale adottato nelle scuole.
Del resto il Libano fu dilaniato da una guerra civile che durò ben quindici anni (dal 1975 al 1990) le cui cicatrici e macerie neanche la più avida gentrificazione potrà facilmente occultare. Le assurdità e i nodi mai sciolti aggiunti dalle guerre fratricide al dolore che ogni conflitto comporta sono stati, e continuano a essere (vedi L’Insulto presentato quest’anno a Venezia), materia fertile, seppur dolente, per i cineasti del posto. In Cinéma de guerre au Liban Zaccak osserva la frattura del corpo sociale libanese causata dalla guerra civile e i modi in cui il cinema ha fatto fronte a questo evento, durante e dopo il conflitto. Il dato che emerge con più tragica prepotenza, oltre allo spreco di vite umane, è la trasformazione radicale di Beirut, sia a livello morfologico che emotivo. La capitale libanese infatti non sarà più la stessa dopo la guerra, e i suoi abitanti saranno condannati al ricordo, nel caso dei più anziani, o all’immaginazione di una città dai tratti onirici. È questa la Beirut che emerge dai racconti che il regista ha raccolto nel documentario Beirut… Points of View (2000), una città gonfia di passioni ma anche di dolorosi rimpianti, dilaniata ma ancora in grado di sedurre.
ARTE A TUTTO TONDO
Tra i partner del festival c’è anche l’Istituto di Cultura Italiana di Beirut, che quest’anno ha avuto l’onore di inaugurare il festival con il documentario di David Bickerstaff Michelangelo, Love and Death. Il patrimonio artistico e culturale del Belpaese era il soggetto di un altro documentario passato al BAFF, Underwater Pompei di Stuart Elliot, anch’esso una produzione estera. L’arte, in senso lato e felicemente contaminato, è la sottotraccia tematica di un festival che ha saputo spaziare dalla letteratura al fumetto, dalla voce baritonale di Placido Domingo a quella ipnotica di Oum Kalthoum, la Maria Callas egiziana. In meno di una settimana il festival è riuscito ad affiancare le straordinarie avventure di Hergé, il creatore di Tintin, al ritorno in patria dopo oltre trent’anni di Zhu Xiao-Mei, pianista cinese alla quale la rivoluzione culturale maoista rimproverò violentemente il suo amore per Bach. Il surrealismo non allineato di Raymond Roussel, la cui misteriosa morte a Palermo fu al centro di un’inchiesta narrativa di Leonardo Sciascia, è stato raccontato da Joan Bofill nel documentario Raymond Roussel: jour de gloire (2016). La tragedia di Palmira, ma soprattutto le parecchie ombre che circondano la sua distruzione per mano di Daesh ma anche dell’esercito siriano e quello russo, è stata esaminata nell’inchiesta della televisione francese Syrie, les derniers remparts du patrimoine.
LO SGUARDO DI PATRICK CHAPPATTE
Veramente bella anche l’inchiesta a fumetti del vignettista svizzero-libanese Patrick Chappatte che, assieme al regista Marco Dellamula, ha visitato il sud del Paese nel 2009 per rilevare l’impatto devastante che l’invasione israeliana ha avuto sulla popolazione civile. Chappatte, che lavora per il quotidiano svizzero francofono Les Temps e per il New York Times, si racconta in una bellissima intervista realizzata da Eric Burnand per TV5MONDE. Al contrario di alcuni colleghi d’oltralpe che hanno più o meno (in)coscientemente ceduto la loro arte ironica ai rigurgiti proto-fascisti e islamofobi che attanagliano la democratica Europa, le vignette di Chappatte continuano a prendere in giro i potenti, non i più deboli. S’interrogano, non giudicano. L’ironia nel suo caso è sempre al servizio dell’incontro, mai dello scontro. Ed è proprio quest’attitudine a renderlo un ospite perfetto per un festival come il BAFF, un evento tanto prezioso quanto necessario in un mondo che sempre più si barrica dietro muri e filo spinato, che esclude per non accogliere. Il Beirut Art Film Festival è l’esatto opposto di tutto ciò: un luogo di incontro, scoperta e disinteressata generosità.
‒ Celluloid Liberation Front
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