Twin Peaks – Il ritorno. Il primo capolavoro del XXI secolo
Molto più rispetto a Inception (2010) e Interstellar (2014) di Christopher Nolan, The Eternal Sunshine of the Spotless Mind (2004) di Michel Gondry, Donnie Darko (2001) e Southland Tales (2006) di Richard Kelly, Collateral (2004) di Michael Mann, Boyhood (2014) di Richard Linklater, Birdman (2014) di Alejandro Gonzáles Iñárritu, The Master (2012) di Paul Thomas […]
Molto più rispetto a Inception (2010) e Interstellar (2014) di Christopher Nolan, The Eternal Sunshine of the Spotless Mind (2004) di Michel Gondry, Donnie Darko (2001) e Southland Tales (2006) di Richard Kelly, Collateral (2004) di Michael Mann, Boyhood (2014) di Richard Linklater, Birdman (2014) di Alejandro Gonzáles Iñárritu, The Master (2012) di Paul Thomas Anderson o Holy Motors (2012) di Leos Carax – alcuni tra i film più significativi di questo primo scorcio di secolo – molto probabilmente Twin Peaks – Il ritorno (2017) di David Lynch ha tutte le carte in regola per affermarsi come la prima vera opera cinematografica che appartiene pienamente a questo ventennio.
Intanto perché, seguendo la tendenza più tipica di questo periodo storico, è una serie tv che allarga i confini del linguaggio cinematografico (un film di diciotto ore), così come in modo diverso il “cinema espanso” degli Anni Sessanta e Settanta aveva ridefinito e riarticolato il senso di un’esperienza culturale.
Senza voler per forza stilare classifiche di merito, che cosa hanno in comune infatti i film sopra citati? La tendenza – sviluppata con metodi, stili, approcci diversissimi tra loro – a scardinare e sfondare i limiti della narrazione lineare, riprendendo in questo la lezione del cinema di quarant’anni fa (un titolo su tutti: 2001 Odissea nello spazio), interrotta dal ritorno al mainstream e alla consolazione rappresentato per la gran parte dagli Anni Ottanta.
UN MONDO PERTURBANTE
In Twin Peaks, Lynch porta alle estreme conseguenze la sua personale ricerca – lavorando coerentemente sulle premesse di film come Lost Highways (1997), Mulholland Drive (2001) e Inland Empire (2006) – e al tempo stesso smontando e rimontando la logica stessa della serie tv odierna, appena uscita dalla sua età dell’oro (1999-2014). Prende infatti l’oggetto di riferimento, le due stagioni originali di Twin Peaks (1990-91) profondamente innestate nell’immaginario collettivo e nella mitologia spettacolare dell’Occidente, e lo trasforma dall’interno: usa cioè il racconto di partenza come pretesto, come gancio e come mondo di riferimento per dire altro in modo né modernista né postmodernista, per portare la narrazione da un’altra parte.
Sin dall’inizio, infatti, sentiamo di essere trascinati in un mondo stranamente familiare, perturbante, Unheimlich (insieme a Kubrick, Freud e Kafka sono i numi tutelari di questa operazione. Freud, Il perturbante, 1919: “Il perturbante è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare”; Schelling, Filosofia della mitologia, 1846: “È detto ‘Unheimlich’ tutto ciò che potrebbe restare […] segreto, nascosto, e che è invece affiorato”), e questo trascinamento è irresistibile, proprio perché – mentre piombiamo, come l’agente Dale Cooper, nelle pieghe del non-ente, del non-essente – si appoggia in modo affatto sconcertante su luoghi e personaggi che conosciamo bene, che appartengono alla nostra infanzia – e all’infanzia del XXI secolo.
UN RACCONTO DI NUOVO TIPO
Il viaggio iniziatico di Cooper, lungo venticinque anni, è di fatto il nucleo centrale di questo racconto-di-nuovo-tipo; così come il suo approdo a ciò che chiamiamo convenzionalmente “realtà” (Las Vegas, il Silver Mustang Casino, la Lucky 7 Insurance e la piazza antistante l’edificio sede delle assicurazioni) riarticola l’intero scenario, la percezione da parte di Dougie Jones-Cooper, e quindi la nostra. Dougie è un uomo apparentemente “nudo”, che vive contatti immediati con il mondo e con gli altri, e dunque ci spiazza costantemente, proprio perché guardandolo agire e operare all’interno di questa rete di relazioni anche noi siamo improvvisamente senza protezione, senza mediazione. Il trauma metafisico del viaggio nelle dimensioni spaziotemporali comporta un riassestamento dei codici, comporta scoperta apprendimento rivelazione, e dunque un affinamento delle capacità di comprensione e predizione. A un certo punto, nella puntata 14, il capo dell’FBI Gordon Cole, interpretato dallo stesso Lynch, rievocando un suo sogno della notte prima con Monica Bellucci si chiede: “Siamo come il sognatore – che sogna – e poi vive dentro il suo sogno. Ma – chi è il sognatore?”.
Una delle possibili risposte all’interno di questa nuova forma di mainstream d’avanguardia si trova al centro dell’ottava puntata, con una scena straordinaria e misteriosa che aggiorna proprio il finale Jupiter and Beyond the Infinite di 2001, e che riconosce nella bomba atomica e nella fine della Seconda guerra mondiale l’origine del male, e del sogno, contemporanei.
‒ Christian Caliandro
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #42
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