Inaugura il Santarcangelo Festival. Intervista con la nuova direzione artistica

Parola a Eva Neklyaeva, nuova guida del festival romagnolo dedicato alle arti performative, e alla co-curatrice Lisa Gilardino. Una panoramica su una rassegna istituito quasi mezzo secolo fa.

Primo, e nuovo anno, della direzione artistica di Eva Neklyaeva, che curerà il triennio 2017-19 con la co-curatela di Lisa Gilardino. Intervista congiunta in occasione della 47esima edizione in programma da oggi, venerdì 7, al 16 luglio. Entrambe immaginano il Santarcangelo Festival come uno strumento per “amplificare il nostro pensiero su come la performance e lo spettacolo dal vivo possano essere rielaborati dagli artisti più diversi ed esportati al di là dei suoi contesti usuali”.

Anzitutto, qual è la vostra formazione?
Eva Neklyaeva: Sono un’organizzatrice e curatrice culturale e da sempre cerco di focalizzare la mia ricerca mettendola in relazione alle questioni legate all’idea di libertà, esplorando ambiti trasversali e aree connesse ai temi dell’arte, della politica e della sessualità.
Al momento vivo a Santarcangelo di Romagna. Le mie cariche precedenti includono la direzione di Checkpoint Helsinki, un’istituzione legata all’arte contemporanea di recente creazione, con una chiara e appassionata prospettiva di ricerca rispetto alle nuove modalità di produzione attraverso pratiche innovative, comprese le forme di comunicazione allargata. Prima ancora ho diretto, per sei anni, il Festival Internazionale di Teatro Contemporaneo Baltic Circle, dandogli una configurazione simile a una piattaforma internazionale con un laboratorio permanente dedicato alla performance multidisciplinare delle generazioni più giovani.
Nel 2014 ho fondato Wonderlust, un festival dedicato alla sessualità alternativa e creativa che si tiene ogni anno, in giugno, a Helsinki. Sono nata a Minsk, in Bielorussia, e ho vissuto la metà della mia vita a Helsinki, in Finlandia. È buffo, prima di trasferirmi in Italia mi sono sempre immaginata come una persona estroversa.
Lisa Gilardino: La mia formazione è legata alle arti visive, con una Laurea in Conservazione dei Beni Culturali e una breve esperienza lavorativa in una galleria d’arte contemporanea a Parigi, ma la vera scuola, dove ho imparato a sostenere e curare un progetto di ricerca artistica radicale, e la tenacia che richiede, è stata lavorare per dieci anni come organizzatrice per Lenz Rifrazioni/Festival Natura Dèi Teatri a Parma. Nel 2011 ho seguito Festival Lab, un training europeo rivolto a produttori e curatori di festival, un’esperienza che mi ha cambiato la vita e grazie alla quale ho avuto la fortuna di conoscere persone straordinarie, compresa Eva, che era una delle curatrici del progetto. Lo stesso anno, Eva mi ha invitata a Helsinki come curatrice in residenza al festival Baltic Circle, che allora dirigeva, per sviluppare un progetto di ricerca con un’antropologa e un’artista visiva, e in questa occasione abbiamo lavorato per la prima volta insieme. Rientrata in Italia ho iniziato a lavorare in maniera indipendente, occupandomi di promozione, diffusione, soprattutto all’estero, per Alessandro Sciarroni e Motus e svolgendo attività di mentoring per giovani artisti e organizzatori. Finché l’estate scorsa, prendendo un caffè in Piazza Ganganelli, Eva mi ha chiesto di iniziare questa nuova avventura insieme a Santarcangelo!

Merman Blix, photo Jessica Bailey

Merman Blix, photo Jessica Bailey

In questi anni entrambe avete maturato esperienze in ambito internazionale, soprattutto come curatrici di progetti di arti visive e performative. Il vostro sguardo riassume diverse discipline artistiche. Dal vostro osservatorio, a che punto è l’arte performativa oggi? Cosa c’è di nuovo?
E. N.: L’ossessione per il “nuovo” a tutti i costi può diventare abbastanza opprimente per la scena artistica, in generale, e anche per gli artisti. Mi interessa ciò che percepiamo come “urgente”, rilevante, connesso alla fibra del mondo com’è oggi. Le arti performative possono avere un gran potere di comunicazione, proprio perché si manifestano in maniera diretta e immediata. In questo momento, il nostro interesse è rivolto alle pratiche post-rappresentative, quasi uno slittamento dalle politiche di rappresentazione verso la pratica artistica intesa come “struttura aperta”: una piattaforma condivisa da cui si possono generare saperi, esperienze ed energia. Apprezziamo molto i luoghi e le modalità in cui la performance diventa una piattaforma che accolga discipline molto diverse, in una pratica fluida, comune, incurante dei confini tra finzione e realtà, pubblico e artisti, approcci di artisti o attivisti.

Quali strategie metterete in campo?
E. N.: Questo processo, per noi, deve essere direttamente creato e guidato dagli artisti, ma anche le istituzioni si stanno lentamente avviando in questa direzione. Lo scarto fondamentale, in questo senso, è quando iniziamo a considerare la produzione come parte della pratica artistica, ovvero quando il riflettore si sposta da “cosa facciamo” a “come lo facciamo”, come cambiamo le modalità di produrre arte in una maniera più sostenibile, piacevole ed egualitaria.

Primo anno di direzione artistica. Quali le linee programmatiche del festival?
Quest’anno Santarcangelo Festival ha inaugurato – in anticipo di due settimane rispetto alla data di inizio – un nuovo museo temporaneo nel centro della città: Museum of Non-Humanity, un progetto a cura delle artiste finlandesi Terike Haapoja e Laura Gustafsson.
L’antropologa Elizabeth Povinelli definisce l’immaginazione come “lo spingere le cose a esistere”. Da questo concetto si sviluppa il lavoro di Terike Haapoja che può essere considerato come una “spinta” verso la materializzazione di istituzioni sociali che al momento sono impossibili ma che dovrebbero, in una realtà parallela, poter esistere o “spingere” nel visibile fenomeni che non hanno uno spazio riconosciuto nella nostra realtà.

The Olympic Games, photo Alice Brazzit

The Olympic Games, photo Alice Brazzit

Che ruolo avrà il Museo?
Il Museo sarà il punto focale – l’epicentro – del festival, creando fisicamente nella città uno spazio che non sarebbe potuto esistere, dimostrando possibile l’impossibile. La premessa del progetto è che la storia della deumanizzazione sia terminata e che sia necessario costruire un museo, un luogo istituzionale in cui riflettere su questo processo. Come potrebbe essere questo luogo? E, ancora più importante, come potrebbe essere il mondo nel quale una tale istituzione possa esistere? Il Museo rimarrà aperto per un mese, offrendo un nutrito programma di incontri, dibattiti, presentazioni, visioni e visite guidate.

In cosa consiste il resto del programma?
Da questo spazio il festival si espande, e trasforma temporaneamente il mondo circostante, proponendo nuovi modelli di esistenza e nuove forme di comunità. Le creazioni artistiche si manifestano nelle forme più varie, ma ognuna di esse è un’esperienza a sé, un viaggio nello spazio e nel tempo – e anche nel pensiero – che intreccia sapientemente il teatro e la vita. Ci piace pensare che il festival possa amplificare il nostro pensiero su come la performance e lo spettacolo dal vivo possano essere rielaborati dagli artisti più diversi ed esportati al di là dei suoi contesti usuali. Si tracciano così nuove mappe e si esplorano nuovi territori, si immaginano nuovi paesaggi e, forse in modo ancor più accurato, si ricompongono i tasselli del mondo che abbiamo davanti.

Che progettualità triennale intendete attuare, e con quali modalità?
Ci sono molteplici linee di sviluppo a lungo termine. Prima di tutto, stiamo lavorando per aumentare il numero di produzioni create da artisti, ad hoc per il festival, attraverso residenze di ricerca a lungo termine. Santarcangelo Festival ha un carattere molto specifico, determinato anche dal luogo unico e da un contesto molto peculiare da cui gli artisti traggono grande ispirazione. Già da quest’anno, durante il festival, ospitiamo alcuni artisti proponendo un progetto di ricerca per il 2018-2019.

Rafforzerete anche il legame con il pubblico?
Stiamo lavorando sulla nostra relazione con gli spettatori. In questo caso l’obiettivo è di coinvolgere un pubblico più diversificato nelle attività del festival, con un target specifico sulle generazioni più giovani e un’attenzione privilegiata agli adolescenti creando un gruppo di teenager locali, con cui abbiamo sviluppato un nuovo appuntamento chiamato “Wash up”, un incontro free-style a cadenza mensile fra due artisti, uno invitato da noi e l’altro dai ragazzi. Abbiamo imparato molto sulla scena italiana dell’hip hop grazie a questo progetto!

American realness, photo Ian Douglas

American realness, photo Ian Douglas

Quali saranno le altre novità?
Stiamo lavorando su una serie di attività che abbiano una durata annuale e continuativa. Abbiamo una foresteria per artisti, qui a Santarcangelo, e abbiamo aperto un processo di selezione internazionale, per chiunque lavori nelle arti, compresi professionisti del settore della comunicazione, organizzazione, tecnica, ecc. La prossima call sarà in ottobre.
Un altro aspetto fondamentale del lavoro è re-immaginare le strategie di produzione, creare un equilibrio migliore tra cosa produciamo e come lo produciamo. Abbiamo cominciato una collaborazione di tre anni con il centro d’arte e ricerca Macao di Milano per sviluppare nuovi modelli di produzione al fine di aumentare la sostenibilità della produzione, sia per il festival che per le arti in generale. Il progetto parte quest’anno, quando Macao presenta i risultati della ricerca che hanno svolto sull’organizzazione del festival, sviluppando un programma di incontri intorno a questo argomento. Per noi è anche un lavoro sulla trasparenza del festival, aprendo il backstage del lavoro agli artisti e agli spettatori.

Con quale criterio avete scelto, per il triennio 2017-19, i tre artisti associati alla direzione artistica: Francesca Grilli, i Motus e il performer Markus Öhrn?
L. G.: Da subito abbiamo sentito il desiderio di condividere il progetto con alcuni artisti in un rapporto di complicità e dialogo profondo lungo l’intera durata del triennio. La scelta degli artisti è avvenuta in maniera completamente spontanea. Prima di tutto perché adoriamo Motus, Markus Öhrn e Francesca Grilli, come artisti e come esseri umani.
Nel caso di Motus si è trattato più che altro di esplicitare e formalizzare un rapporto che di fatto esiste già da anni, grazie a una relazione storica e forte con il progetto del festival. Motus presenta i propri progetti in tutto il mondo, ma gli uffici della compagnia sono a Santarcangelo di Romagna, nello stesso edificio del festival.
L’artista svedese Markus Öhrn ha sviluppato ormai da tre anni un progetto con alcune donne residenti a Santarcangelo, le azdore (letteralmente le “reggitrici della casa”), che ha avuto un impatto enorme sulla comunità artistica, sulla forma del festival e sul percorso artistico e personale sia di Markus che delle azdore stesse. Inoltre Eva ha seguito e sostenuto il suo percorso artistico fin dagli esordi, durante la sua direzione artistica al Baltic Circle, co-producendo il suo fortunatissimo Conte d’Amour.

E per quanto riguarda Francesca Grilli?
Francesca Grilli, invece, fa parte di quella generazione di artisti italiani che lavorano su scala internazionale e, al di là dei linguaggi e dei formati, apre una nuova relazione con il festival, dove aveva presentato le sue creazioni solo una volta, molti anni fa.
La scelta di questi tre “artisti associati” va a riflettersi su molteplici ragioni, tra cui la storia del festival, il radicamento sul territorio e la proiezione verso modelli internazionali. La loro posizione di artisti associati non implica regole né obblighi, significa creare uno spazio per una qualità di ascolto reciproco e profondo in una pratica di condivisione, nel corso dell’anno e rispetto ai progetti sui quali si sta lavorando.

Francesca Grilli, artisat associata

Francesca Grilli, artisat associata

Il tema del corpo pensato e declinato come strumento d’arte e politica. Cosa significa? E in che modo può influire sul nostro relazionarci come comunità?
E. N.: Una delle tante domande che ci hanno accompagnato mentre lavoravamo al programma è stata: come tenere e mantenere lo spazio per tutti coloro che sono coinvolti, rivolgendoci agli spettatori come a esseri emotivi, intellettuali, incarnati e sessuali? Se immaginiamo il festival come un collettivo di corpi, in che modo questo cambia la strategia del curatore? Questa è la ragione per la quale alcuni progetti in programma mettono in campo la fisicità degli spettatori. Infatti invitiamo gli spettatori a immergere i loro corpi nella piscina locale con Merman Blix, a danzare in un bosco nascosto di notte, a nutrirsi di cibo locale prodotto in fattorie sostenibili e a levitare nell’habitat creato dal collettivo Wauhaus.

Quali altri artisti declineranno questo tema?
Il corpo emerge come un tema forte in molti progetti attraverso la lente delle politiche sull’identità. Che tipo di corpi sono rappresentati nell’immaginario pubblico? A questo proposito abbiamo scelto di ospitare artisti che lavorano sul capovolgimento dei nostri pregiudizi sui temi di genere, razza, età, disabilità, ecc, creando identità più fluide e anche fantasiose o ironiche rispetto a quelle a cui siamo incollati. Pensiamo, per esempio, al lavoro di Motus con la banda di Uber Raffiche, o a Dana Michel, Doris Uhlich, Chiara Bersani, Silvia Gribaudi, Francesca Grilli, Simona Bertozzi…. E altri ancora.

Un’attenzione particolare è dedicata alle installazioni e performance site specific: gli habitats, in vari luoghi della città, con il pubblico libero di muoversi e interagire. Che valore date a questa modalità performativa di abitare e far vivere lo spazio?
Abbiamo pensato agli habitats come “idea di spazi” da proporre agli artisti o ai collettivi per essere abitati, interpretati, resi vivi durante il festival. Gli artisti sono invitati a proporre il loro “programma nel programma” e a creare diversi ambienti per gli spettatori tutti da vivere. Sono spazi dalla struttura aperta dove l’imprevisto può accadere e dove incontri inaspettati possono avvenire. Con questo approccio, i curatori diventano “facilitatori”, più che programmatori, e il dialogo con gli artisti è come una conversazione che accoglie la sorpresa. Gli habitats rendono concreto lo “spazio del pensiero” sulla produzione di arte nello specifico degli incontri gestiti da Macao e di un bed & breakfast – per accogliere artisti e pubblico – gestito da Azdore, un collettivo di donne locali.

The Olympic Games, photo Alice Brazzit

The Olympic Games, photo Alice Brazzit

Un festival che cambia direttore artistico spesso cambia totalmente i connotati. Cosa rimane, in questo nuovo corso che si sta avviando, dell’esperienza maturata in questi anni dalle direzioni precedenti?
E. N.: Sono stata davvero fortunata a ricevere il festival dalle mani di Silvia Bottiroli. Negli anni scorsi ha saputo sviluppare una reputazione internazionale incredibile. Ho scoperto Santarcangelo prima di tutto attraverso il suo lavoro.

Questa nuova edizione sarà dunque all’insegna della continuità?
E.N. e L. G.: Per questa edizione abbiamo lavorato molto al fine di sostenere e dare una continuità alla comunità artistica che è nata intorno al festival, invitando molti artisti a proseguire questo viaggio insieme. Il festival ha una posizione geografica e un’atmosfera davvero uniche, che è possibile creare solamente dopo aver interrotto la vita di una piccola cittadina italiana ogni estate per quasi cinquant’anni ormai. Quando arrivi qui, è molto chiaro che il festival è una struttura sociale complessa e ognuno qui ha qualche storia da raccontare. La verità è che, in quasi cinquant’anni, il festival è cambiato molto e quindi non ha una sola immagine, ma molte. Alcune persone la pensano ancora come una comunità hippie, mentre altri la vivono come una ground-breaking, una piattaforma per la creazione site specific a livello internazionale. Questo dona davvero libertà ai nuovi curatori che, invece di rompere un grande paradigma, semplicemente aggiungono alla già ampia galleria la loro visione. Ed è una sensazione abbastanza liberatoria.

Un’idea del pubblico italiano? Cosa cerca secondo voi?
E. N.: Sto cercando di abbandonare l’idea che ci sia una tipologia omogenea di pubblico. Ci sono davvero tanti tipi di pubblico e a Santarcangelo questo si sente molto. Per me il pubblico italiano è molto più curioso e aperto ai linguaggi della contemporaneità di quanto a volte si pensi.
E.N. e L. G.: Anche all’interno di una piccola cittadina abbiamo tipologie di spettatori diversi: gli abitanti del centro storico che seguono il festival e il pubblico dall’altra parte della Via Emilia che non si sente parte di questo. Poi ci sono le persone che vengono da fuori, ovvero il pubblico del teatro: gli addetti ai lavori, i gruppi di attivisti, gli spettatori professionisti, i festaioli, i programmatori internazionali, i critici e così via. Tutte queste persone desiderano cose abbastanza diverse, spesso in conflitto fra loro. Fa parte della sfida e della bellezza di questo festival, per cercare almeno di riunire tipologie diverse di persone e non dover scegliere fra alta e bassa cultura, posizioni elitarie e popolari.

Giuseppe Distefano

http://santarcangelofestival.com/it/

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Giuseppe Distefano

Giuseppe Distefano

Critico di teatro e di danza, fotogiornalista e photoeditor, fotografo di scena, ad ogni spettacolo coltiva la necessità di raccontare ciò a cui assiste, narrare ciò che accade in scena cercando di fornire il più possibile gli elementi per coinvolgere…

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