Un Misantropo ipercinetico, alla Biennale Teatro di Venezia
Una edizione all’insegna delle donne quella ideata dal nuovo direttore artistico Antonio Latella. E la regista tedesca Claudia Bauer ha chiuso il festival veneziano con la messinscena della celebre commedia di Molière riscritta da Peter Licht: una divertente e amara riflessione sulla società in un’epoca che è agli albori di quella moderna, ma in cui sono già presenti i temi che ancora oggi ci tormentano.
È stata la Biennale delle donne. Delle registe. Tutte europee. “Ladies first!” è stato il motto col quale Antonio Latella ha inaugurato il suo primo anno del quadriennio di direzione artistica del settore Teatro della Biennale di Venezia, col titolo Atto primo: regista. Un’edizione tutta al femminile, dunque, perché “nelle registe donne” – ha spiegato Latella – “è più facile, anche in un breve tempo, intravvedere la nascita, o meglio l’evoluzione dei linguaggi. … Esse sono state capaci (oggi) di rilanciare la regia cercando non solo un’estetica ma soprattutto hanno cercato di creare nuove lingue di racconto, nuove grammatiche, nuovi alfabeti. È proprio nella concentrazione di una ricerca del linguaggio che abbiamo riscontrato un’esigenza, una necessità mai gratuita, mai legata a un bisogno puramente carrieristico o di affermazione, ma da una sincera urgenza creativa”. L’intelligente formula attuata da Latella in questa linea ha permesso di conoscere e seguire il loro processo artistico e dar conto dei percorsi intrapresi offrendo a ciascuna delle registe una mini-personale, con due o più spettacoli.
Come, per esempio, a Nathalie Béasse, che ha portato ben quattro dei suoi lavori. Della tedesca Claudia Bauer abbiamo visto, a chiusura della Biennale, una spiazzante versione del Misantropo, Der Menschen Feind (produzione Theater Basel). Bellissima. L’azione raccontata da Molière, sappiamo, si svolge in una stanza della casa di Célimène, che è cortese con tutti. Alceste l’accusa di civetteria, ma lei oppone delle valide ragioni alle sue intransigenze. I due poli si attraggono ma non possono stare insieme. Ed è proprio la lacerazione dell’ottuso e scontroso Misantropo, scisso tra il desiderio di estremismo e la dipendenza dalla machiavellica coquette Célimène, che diventa il perno attorno a cui ruota l’opera.
UN MOLIÈRE CONTEMPORANEO
È un Molière più che mai nostro contemporaneo questo della divertentissima – e amara – riscrittura che ne ha fatto il musicista e autore Peter Licht. Come spesso succede per i grandi classici, Molière possiede un’attualità ancora oggi sorprendente e forte, poiché il suo teatro è il lavoro di un grande analista, di un attento osservatore del mondo e dei propri simili. Ma è anche una metafora dell’essenza del teatro, del gioco tra essere e apparire. Licht, in quest’opera che racconta il rapporto difficile di un uomo con la società che lo circonda e che vive sostanzialmente un profondo disagio a causa del suo carattere, ne ha colto le molteplici sfaccettature con lo sguardo, anch’egli, di attento osservatore della realtà e degli uomini, evidenziando, soprattutto nel personaggio principale, il desiderio, e l’impossibilità, di vivere una vita più autentica. Che diventa ossessione anche nella ricerca di definizione di essa, di cosa significhi per ciascuno dei personaggi. E lo fa con un linguaggio perversamente sofisticato, contorto e distorto, una parlata ipercinetica, un loop verbale che riflette la vacuità dei protagonisti. Il piccolo mondo salottiero-mondano che si pavoneggia e spettegola attorno alla civettuola e intrigante vedovella Célimène, e che a un dato punto le si rivolta contro, è quell’ambiente degenerato che Alceste aborre in sommo grado e che sarà causa, insieme con l’inconsistenza e frivolezza dell’amata, della sua fuga dalla compagnia dei propri simili. I personaggi che s’incontrano si dilungano in monologhi e chiacchiere, in riflessioni su se stessi, in discorsi vuoti, in dibattiti sui propri stati d’animo e in manifestazioni egocentriche – qui c’è uno che addirittura si è fatto tatuare la sua foto del passaporto sul glande e vuole costringere tutti a guardarla – che generano continui fraintendimenti e insinuazioni. Mettendoli in relazione, Licht esaspera i loro toni e comportamenti “condannandoli” a ripetitivi e logoranti dialoghi ed espressioni verbali fino a farle diventare suoni astratti svuotati di significato; mescola, nella vacuità delle conversazioni, sempre con acida ironia, improvvisi riferimenti a tematiche di attualità come i migranti nel Mediterraneo e il tappetino da ginnastica per gli esercizi quotidiani; la paura del terrorismo e il mondo dei social; l’invasione degli infradito dei piedi metrosexual in estate e la critica al capitalismo.
ACROBAZIE VERBALI E FISICHE
Velocità e icasticità connotano la regia di Claudia Bauer già in apertura di sipario sul palcoscenico dalle quinte abbassate e ingombro solo di un biliardino barocco e di una parete laterale con finestrino (che si rivelerà una sauna), dove si fanno avanti le caricature di Alceste e Filinto. Con in testa due grottesche parrucche giganti, saranno alle prese con un surreale dialogo di domande e risposte a raffica, con Alceste sempre più innervosito che chiede all’altro di dire qualcosa di sincero che venga dall’anima e che nasca da dentro, sentendosi rispondere che gli basta lavorare, recitare il copione e andarsene a casa, e che “essere creativi, significa solo essere pagati di meno”, mentre dietro di loro faranno capolino, a intervalli, figure da cartoon con commenti cinici e slogan pubblicitari sul capitalismo. Queste ed altre acrobazie dadaiste, verbali e fisiche, si susseguiranno in altri momenti anche con canzoni dai testi esilaranti come “… Prima di partire devo restare”; con il disquisire sull’importanza di un congresso del dolore da organizzare; con l’annuncio dell’arrivo degli ammiratori di Célimène e il loro posizionarsi in pose eccentriche nel suo salotto interrompendo continuamente le effusioni d’amore con Alceste; con i campionati terapeutici di sauna discutendo animatamente sui feedback del premere ed essere premuti dagli altri per essere considerati e ammirati. In questo bailamme in cui i personaggi, di qualsiasi argomento parlino o situazione creino, si preoccupano solo di sé stessi, non è importante “cosa” razionalmente accade ma “come” accade. Ed è così che, quanto di sottinteso e di rivoluzionario nei confronti della morale del tempo di Molière c’è nelle sue battute, nelle parole di Licht e nelle mani della Bauer è come se improvvisamente si trasformasse in una bomba di oggi, carica di trasgressione e di sentimento.
LA CATASTROFE DEL BABBEO
Costruito come una farsa, il Misantropo si chiude con la catastrofe del babbeo, del poveruomo che è corso incontro alla rovina sperando di trovare solo nell’amore un rifugio alla volgarità dilagante. Confesserà infine davanti a tutti: “Sento ancora l’accasciarsi del mio corpo, ma anche quello scolorirà e scomparirà, e allora sarò finalmente arrivato all’obiettivo dell’irraggiungibilità. Qualunque cosa io cerchi di raggiungere, in me, in voi, non raggiungo nulla. L’amore avrebbe potuto. Addio! Prendo congedo, non voglio lasciare un’altra volta un vuoto dietro di me. … Vado da solo”. E uno dei personaggi sintetizzerà, prima della tranquilla bevuta di caffè e di acqua calda: “Arsinoé voleva Alceste. Alceste non voleva Arsinoé. Neanche per un momento. Anche Acaste e Oronte volevano Célimène, ma alla fine non volevano neanche lei. Volevano solo loro stessi. Célimène si è tenuta tutte le porte aperte, ma alla fine si è decisa, anche se è stato inutile. Alceste ormai non la voleva più”. Un recitare antipsicologico ispirato alla Commedia dell’Arte, e una energica dirompente fisicità caratterizzano la magnifica squadra di attori, che, in costumi brillanti, maschere e trucchi vistosi, assomigliando a marionette prive di volontà che credono di essere libere, ci fanno riflettere, divertendoci, sulla luccicante superficialità della nostra società.
‒ Giuseppe Distefano
www.labiennale.org/it/teatro/2017
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