Romaeuropa Festival. Intervista a Sidi Larbi Cherkaoui
Torna il Romaeuropa Festival. Dopo Sasha Waltz, va in scena il coreografo Sidi Larbi Cherkaoui con “Fractus V”, la sua ultima produzione che prende spunto dal pensatore americano Noam Chomsky.
Un programma sempre più ricco quello del Romaeuropa Festival, che quest’anno ha aperto le danze con Sasha Waltz (Kreatur, 20-23 settembre, Teatro Argentina) e Rimini Protokoll (Nachlass, Pièces sans personnes, 21-23 settembre, Teatro India).
Il festival, ispirato all’interrogativo “Where are we now?”, trova in una programmazione sempre più pluridisciplinare la risposta al quesito che dà il titolo all’edizione 2017-2018.
Il 26 e 27 settembre l’Auditorium Conciliazione ospiterà l’ultima produzione del coreografo belga Sidi Larbi Cherkaoui. In Fractus V i corpi dei danzatori della compagnia incontrano le parole del linguista e filosofo americano Noam Chomsky, per far emergere il conflitto, quanto mai attuale, tra informazione e manipolazione. Ne abbiamo parlato con il coreografo.
“The only way the individual is able to protect himself against political and social propaganda, is to study all the information available. Each day we are bombarded with news that tries to influence our thinking. It is a very intensive exercise to filter everything and to resist believing what we are told to believe”. Protagonista di Fractus V è il pensiero di Noam Chomsky. In che modo hai incontrato questo importante pensatore?
Il pensiero di Noam Chomsky è stato un filo rosso importante che ha attraversato i miei studi prima che iniziassi a occuparmi di danza. Devo ringraziare per questo un professore universitario che ce ne presentò il pensiero affrontando il tema delle differenze culturali. Trovavo la sua attenta analisi della società molto potente ed ero interessato al legame tra il suo pensiero e il tema del multiculturalismo. Nel corso degli anni mi resi conto di quanto i suoi testi fossero pertinenti rispetto al nostro momento storico. E oggi che il livello della propaganda cresce trovando terreno fertile in Twitter, Facebook o genericamente su Internet, lo sono ancora di più. Navighiamo tra informazioni di cui ci fidiamo (perché si tratta di pensieri scritti) ma di cui non possiamo verificare le fonti e ognuno di noi può ritenersi a tutti gli effetti una fonte di informazione. Il reality check ha perso la sua importanza.
Come hai inserito tutto questo all’interno dei linguaggi coreografici e scenici?
Lo spettacolo nasce anche dal desiderio, dopo quasi quindici anni di carriera, di riflettere sulle mie verità, sulla mia poetica, chiedendomi se è ancora valida e vera oggi, e se sarà ancora vera e valida domani. Ho sentito la necessità di passare la mia arte al vaglio del “reality check”, di confrontarla con la realtà.
In scena recitiamo i testi di Chomsky. Le immagini in video dello spettacolo ricordano ciò che passa alla televisione oggi: rifugiati che sbarcano sulle spiagge e, in parallelo, immagini di personalità americane che affermano che tutto va bene, che non c’è da preoccuparsi di niente… L’opera di Chomsky afferma qualcosa di molto importante: tutti i sistemi di assetto di una società ‒ sia essa monarchia, democrazia o qualunque altro sistema ‒ produrranno sempre delle vittime, in coloro che vivranno ai margini o che saranno esclusi dal sistema. Credo sia nostro dovere morale prenderci cura degli esclusi, di cui invece, in qualche modo, ci dimentichiamo.
Dovremmo essere solidali verso i migranti che attraversano il Mediterraneo, verso coloro che hanno perso la propria casa e vengono a bussare alle nostre porte perché non hanno altro posto in cui andare e penso che dovremmo rivalutare il nostro sistema politico, che nel tentativo di proteggerci causa terribili danni agli altri.
A questo scopo avremmo bisogno di politici-pensatori come Chomsky.
Anche le riflessioni di un altro pensatore rientrano nello spettacolo.
Sì, fa parte dello spettacolo anche un testo di Alain Watts, filosofo che non analizza la società come fece Chomsky ma i singoli individui, nelle loro interiorità spirituali. Ho trovato l’accostamento tra il pensatore americano e il filosofo inglese molto interessante: due pensieri apparentemente opposti ma in realtà complementari, ambedue importanti e necessari oggi.
In Fractus V s’incontrano discipline e culture coreografiche molto diverse tra loro in quello che potremmo ormai definire un tratto caratteristico dei tuoi spettacoli. Da dove nasce questo interesse per l’incontro tra danze e culture diverse e in che modo, in Fractus V, queste riescono a fondersi?
Per Fractus V lavoro con persone provenienti da diverse aree geografiche e culturali: Germania, USA, Francia, Spagna, Belgio, Marocco, musicisti dal Giappone e dalla Corea, India e Congo. Sono tutti miei amici, lo sono sempre stati, persone che conosco da molto tempo e che desideravo mettere insieme in uno stesso spettacolo per mescolarne i vocabolari. In fondo l’arte è vita e la vita è sempre incontro.
A quali pratiche e tecniche ti sei ispirato?
Sono stato fortemente attratto e profondamente influenzato dalla pratica hip hop di Patrick Williams e dalla tecnica di Johnny Lloyd e Fabian Thomé. Ero certo che saremmo riusciti a procedere in modo unitario nonostante le differenze di lingua e linguaggi, background culturali, musicali, coreografici… e così è stato. Abbiamo lavorato insieme e in modo organico. Uno di noi, io, si è assunto la responsabilità del prodotto finale (della performance in questo caso) e tutti gli altri hanno offerto il proprio contributo. Così si dovrebbe riuscire a fare anche fuori dall’arte, anche in democrazia e in politica. Siamo tutti sulla stessa barca e collaborare ci permette di rimanere a galla.
Non è facile, richiede molto sforzo, diplomazia, pazienza… Il problema è che in questo particolare momento storico la rapidità degli scambi non facilita il dialogo multiculturale e tutto sembra quindi essere “lost in translation”. La vera comunicazione richiede tempo, quello che oggi non le dedichiamo.
Le differenze culturali sono quindi una preziosa risorsa da cui attingi.
Non sono l’unico che lavora sulle differenze culturali, d’altronde tutti gli artisti con cui ho collaborato lo fanno: Akran Khan lavora con danzatori provenienti da tutte le parti del mondo e Maria Pagés con musicisti di diverse culture. Molti artisti superano le frontiere geografiche e politiche perché è ciò che l’arte fa da sempre, non è qualcosa che ho inventato, appartiene alla natura dell’arte.
Viaggiamo da un posto all’altro e con noi viaggiano le informazioni e le conoscenze. Per quanto mi riguarda cerco di continuare a imparare crescendo, ho 41 anni ora. Monaci buddisti, musicisti giapponesi, danzatori provenienti da aree geografiche diverse, per me sono solo persone. Voglio mescolare le loro conoscenze al mio immaginario.
Il mio mondo sarà sempre mio, non ha bisogno di essere difeso, non sarà mai connesso a nient’altro che alla mia immaginazione, ai miei sentimenti, che cambiano ogni giorno. Le scelte che faccio sono solo il riflesso del mio stare nel mondo e credo che il mondo sia un luogo molto complesso, perciò il mio è il tentativo di trovare le modalità per narrare questa complessità, con tenerezza.
Perché Fractus V?
M’interessa la frattura, non solo intesa come atto fisico ma metaforicamente, come separazione e crisi identitaria. Mi sento marocchino e belga allo stesso tempo, e non vorrei mi venisse chiesto di scegliere. Sono maschile e femminile, quando sono costretto a disconnettermi dal mio lato femminile sento la mia anima che si frattura. Fractus infine sottolinea come tutte le persone-danzatori con cui collaboro siano parte di me. In scena siamo tutti una parte di un unicum che lotta tra la frattura e il ricongiungimento, all’infinito.
‒ Chiara Pirri
L’intervista è stata effettuata per il programma di sala del Romaeuropa Festival.
https://romaeuropa.net/festival-2017/
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