Rule of three. Intervista al coreografo Jan Martens
Jan Martens, coreografo belga, vola da Parigi a Roma per scardinare i confini tra i generi. E il 22 e 23 novembre va in scena al teatro Vascello.
Fino a pochissimi giorni fa era a Parigi per il festival d’Automne (Théâtre de la Ville ‒ Espace Pierre Cardin), dove ha presentato la sua ultima creazione, Rule of three, e domani, mercoledì 22 novembre, approderà al Romaeuropa festival. Parliamo del coreografo belga Jan Martens (1984), che con la sua fulminante carriera si afferma come uno tra i giovani coreografi più interessanti della scena internazionale. Uno tra i pochi in grado davvero di scardinare i confini tra i generi artistici, insieme al collega francese Noé Soulier.
La sua ascesi è stata seguita a stretto giro dal festival romano, dove Martens ha già presentato nel 2015 Ode to the attempt (a solo for meself) e nel 2016 The dog days are over.
Movimento, luce e suono (quest’ultimo firmato e eseguito dal vivo da NAH, batterista americano le cui composizioni spaziano dal punk al noise fino all’avant-jazz e all’hip hop), sono i protagonisti di questo spettacolo, composto di paesaggi coreografici diversi che si susseguono con passaggi repentini. La scena è come un wall di un social network su cui effetti visivi di diversa natura e contenuto si alternano ‒ dal video all’immagine al testo scritto, dalla tragedia alla commedia. Il nostro cervello si adatta a questo flusso senza soluzione di continuità, con quali effetti sull’individuo e sulla società?
L’INTERVISTA
La “regola del tre semplice” è un metodo aritmetico che definisce l’equilibrio Fra tre fattori oppure un principio per il “code refactoring” nell’informatica o cos’altro ? In che modo questo titolo parla del tuo spettacolo?
Il termine “regola” sta a significare qualcosa di rigoroso, sancito e costretto in una forma, come una regola matematica appunto. E oggi la forma è ovunque, tutto è caratterizzato da una perfezione formale. Come risposta al surplus di informazioni di cui siamo vittime, sentiamo la necessità di definire, ordinare tutto in compartimenti stagni. Passiamo al numero tre, che ho scelto per ragioni diverse. Lo spettacolo nasce da un reale e fitto dialogo fra tre elementi: il movimento, la musica e la luce. Rule of three può essere letto come una raccolta di racconti brevi fatti di corpo, luce e musica, in cui questi tre elementi sono talvolta separati talvolta in dialogo tra loro, seguendo combinazioni diverse.
I danzatori sono tre ‒ e tutti sanno come il tre sia un numero difficile da gestire in scena. Come porre in relazione un individuo con una coppia? Come dar vita a un gruppo con sole tre persone? Infine la “regola del tre” nella scrittura, che suggerisce che eventi e personaggi in trio siano più ironici o efficaci nello svolgimento della narrazione e nel coinvolgimento del lettore. Insomma, il tre è il numero perfetto, come dicevano i latini omne trium perfectum.
I tuoi spettacoli hanno sempre un significato politico, anche se metaforico, a volte nascosto. The dog days are over e Ode to attempt lo hanno già dimostrato al pubblico di Romaeuropa. Cosa permane della tua ricerca in questo nuovo lavoro?
Non so se vi sia un significato politico anche questa volta, ma spero ancora di affrontare temi in grado di far scaturire riflessioni e approfondimenti.
Diversamente dalle precedenti, in questa performance si passa in modo molto brusco da uno stato a un altro, da un’atmosfera a un’altra. Questo traduce ciò a cui i nostri cervelli si stanno abituando, sottoposti a input diversi ma simultanei. La nostra mente fronteggia e digerisce molteplici informazioni in un breve arco di tempo e provenienti da canali diversi.
Ci scontriamo quotidianamente con così tante immagini, idee e opinioni che passano sullo schermo alla velocità della luce, al punto che sembriamo non essere più in grado di selezionare ciò che è interessante e ciò che non lo è. Facciamo un uso compulsivo dell’informazione.
Come tratta questi temi il tuo spettacolo?
Rule of three porta in scena questa perdita di concentrazione proporzionale all’acquisizione di una maggiore elasticità, che ci permette di saltare da una cosa all’altra: dal video dolce di un gattino a un articolo tragico e un altro video divertente su un qualche disastro, a un tweet del Presidente… Il nostro cervello è un turbinio, processa informazioni diverse e le digerisce rapidamente (ma davvero digerisce?). A volte sento che noi e la società in generale stiamo andando verso un stile di vita troppo scomposto e frammentato.
Per raccontare questo stato di cose utilizzo ancora una volta, come in The dog days are over, uno stato di esaurimento fisico nel corpo del danzatore. Penso che viviamo più che mai in un’epoca di esaurimento, di stanchezza data dal surplus d’informazione. Una società da FASTER BIGGER BETTER (più veloce, più grande, migliore), che ci vuole multitasking, veloci nel cambiamento, forti di fronte agli ostacoli, madri perfette e allo stesso tempo donne in carriera. Seguaci di un’efficienza sopravvalutata. L’esaurimento fisico si accompagna alla ripetizione, che induce stanchezza, sulla scena come nella vita quotidiana.
Questi due perni del mio lavoro tornano in Rule of three, sebbene orchestrati in modo diverso.
È la prima volta che lavori con della musica dal vivo. La musica di NAH, tra punk DIY, noise, avant-jazz e hip-hop, è forza trainante per il pezzo. La performance è al tempo stesso un concerto, uno spettacolo di danza e una raccolta di racconti. Come hai lavorato sulla correlazione tra corpo, musica e racconti?
Una sequenza di racconti per tradurre l’attività del nostro cervello intento a fare zapping da un’informazione a un’altra. Per quanto riguarda la partitura coreografica, lo spettacolo si costruisce su improvvisazioni. Ho lasciato liberi i danzatori molto più che nei miei precedenti lavori. Ed è un vero piacere vedere Steven Michel ‒ con il quale ho collaborato per quattro spettacoli – creare come non aveva mai potuto fare prima all’interno del mio lavoro. Infine la musica aggiunge sapore naturalmente. A volte ha anche una funzione narrativa.
NAH crea brani musicali molto corti e questo è in sintonia con la brevità dei racconti, tracce di solo un minuto, fino a un massimo di cinque. Nello spettacolo si passa repentinamente da scene / tracce di 15 secondi a scene di 15 minuti.
La musica ci permette di guidare gli spettatori verso determinate sensazioni, un’arma a doppio taglio che volevo indagare.
Quanto frammentata la composizione musicale deve essere, affinché non diventi solo una colonna sonora che cala il pubblico in una sorta di trance, che lo prende per mano, che gli indica cosa deve provare? Odio quando questo succede in uno spettacolo. In che modo il volume e i silenzi influiscono in questo? Quando la danza ha la meglio, quando è la musica che porta, quando sono allo stesso livello?
Questo spettacolo accoglie atmosfere, narrazioni, linguaggi performativi diversi, diversamente dai miei precedenti spettacoli che si concentravano su un solo elemento, azione, linguaggio. Rule of three taglia e salta.
‒ Chiara Pirri
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