Danza e partecipazione. Gilles Jobin e la realtà virtuale immersiva
All’Arsenic di Losanna è andata in scena una nuova tappa della ricerca sulla realtà virtuale immersiva del coreografo svizzero Gilles Jobin: qui la partecipazione degli spettatori, cinque per volta, trasformati in avatar, è più contemplativa e riflessiva che performativa o dinamica.
L’incredibile performance VR_I vista all’Arsenic di Losanna nasce dall’incontro fra il coreografo svizzero Gilles Jobin e i fondatori di Artanim. Motion capture center di Ginevra: Caecilia Charbonnier e Sylvain Chagué. È un lavoro che interroga la percezione della realtà e prova a esplorare nuovi immaginari per la danza contemporanea, già pluripremiato al 46esimo Festival du nouveau cinéma de Montréal. Equipaggiati con un casco per la realtà virtuale (Oculus Rift), sensori alle mani e ai piedi, e dotati di un computer incorporato nello zaino da portare sulle spalle, gli spettatori (cinque per volta) circolano liberamente in uno spazio circoscritto da telecamere che seguono tutte le azioni, totalmente virtuali. Le immagini sono potenti: dall’interno di una caverna si è precipitati fuori, grazie a figure enormi e titaniche (sono i danzatori della compagnia, resi qui docili giganti Golia) che arrivano e guardano perplessi questi intrusi in miniatura (novelli Davide armati più di empatia che di avversione), in uno spazio della meraviglia. Prima è un aperto deserto, poi un loft razionalista in cima a una montagna, con tanto di capolavori dell’arte occidentale alle pareti, poi un parco disseminato di figure che danzano open air. Sullo sfondo, un paesaggio sempre mozzafiato e questi giganti in lontananza intenti a fare altro, per tutto incuranti di ogni intrusione. La contemplazione di chi vi partecipa allora si intensifica, nell’attesa di riconoscere e comprendere la natura di tanta epifania. Intanto, cinque ballerini virtuali irrompono nello spazio circoscritto degli avatar, moltiplicandosi, rimpicciolendosi o ingrandendosi, e interagendo con i partecipanti. Sono giochi di scala che in qualche modo costringono a danzare insieme, ad aprire lo spazio di relazione. Prima che la caverna venga riposizionata nuovamente per annunciare la conclusione del tempo di questa esperienza.
UN’ESPERIENZA DELL’ALTERITÀ
Il plot è prefissato e non c’è modo di variarlo; i rumori non corrispondono all’azione se non in una simulazione che dovrebbe essere più fortemente mimetica; ma soprattutto le “taglie” del corpo di ogni avatar sono già stabilite (e assegnate in modo casuale) e dunque a una percezione tattile della propria anatomia corrisponde a tutto un altro schema corporeo nella percezione visiva virtuale. Quindi si tratta di una esperienza extracorporale perché può capitare di dover essere una ragazza cinese in jeans attillatissimi, mani affusolate e scarpette da ballerina, come in una sorta di malizioso contrappasso… Molto opportunamente, però, non compare mai uno specchio attraverso cui vedersi, infatti non c’è spazio per inutili compiacimenti e dispersive sorprese egoriferite. Occorre eventualmente chiedere all’altro accanto per conoscere ciò che si è, in quale pelle si appare. E le sorprese davvero non mancano. È dunque un’esperienza dell’alterità quella cui invita Jobin, non soltanto in termini virtuali ma come una più nuova interrogazione del sé, quando la nozione di realtà viene scardinata e allora occorre rinegoziare ogni presenza e ogni possibilità di convivenza con l’altro in una nuova ipotesi di spazio condiviso. Colpisce l’assenza di ogni inutile effetto spettacolare, da intrattenimento: la più vera sorpresa è quella di poter restare nello spazio, quasi in ascolto di questo nuovo ambiente, di questo nuovo paesaggio virtuale che con semplicità interroga direttamente il rapporto fra la tecnologia e l’ontologia dell’umanità, a partire proprio dalla loro separatezza.
UNA PERFORMANCE SECONDARIA
In attesa di poter performare i loro avatar, gli spettatori attendono nella stessa stanza proprio mentre gli altri spettatori, che li hanno preceduti, sono già proiettati nel gioco immersivo. Ed è qui che succede una sorta di performance seconda o vicaria: si tratta di un’esperienza di mestizia e di esclusione quella di chi osserva, dalla realtà, i movimenti “a vuoto” di coloro impegnati, invece, con la virtualità. Una osservazione anche divertita per quello sbracciare goffo e quei movimenti improvvisi fuori contesto, ma non meno carica di tensione e inquietudine per tutto ciò che appare ancora invisibile e inatteso, e che, soltanto fra poco, potrà invece essere contemplato. Come nel mito della caverna di Platone, chi è esterno ha un’idea forse più immediata della situazione, ma non è meno condannato a non poter fare tesoro della sua comprensione: perché la natura della realtà ama nascondersi proprio dietro le sue stesse ombre.
‒ Stefano Tomassini
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