Versus. Il dibattito fra centro e periferia
Torna la rubrica “Versus” con un nuovo dialogo dedicato alle dinamiche tra centro e periferia. Vincenzo Trione e Andrea Bruciati tentano un’analisi dei limiti e delle opportunità che caratterizzano la vita culturale nelle grandi metropoli e nelle piccole realtà di provincia.
Per gran parte della storia dell’uomo il paradigma della “capitale culturale”, come laboratorio di idee e culla della creatività, ha conservato la sua validità: l’Atene di Pericle, la Roma imperiale, la Firenze dei Medici e del Rinascimento, la Parigi tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento sono solo alcuni tra gli esempi più noti. Poi, con la modernità, si è affacciata una tendenza alla svalutazione dello spazio, che la recente impennata tecnologica non ha fatto che accentuare. La rapidità dei trasporti, le potenzialità dei nuovi mezzi di comunicazione, la facilità con cui possono instaurarsi rapporti tra persone distanti hanno come ovvia conseguenza un profondo cambiamento di prospettiva, basato sulla stretta interconnessione tra locale e globale. Nonostante tutto, alcune città conservano un fascino magnetico e continuano a offrire, più di ogni altro luogo, spunti creativi e occasioni di crescita intellettuale. Per il terzo capitolo di Versus, dedicato al rapporto tra gli artisti e il territorio, intervengono Vincenzo Trione e Andrea Bruciati.
Per quanto nel mondo contemporaneo i confini tra i grandi centri e le periferie possano apparire sfumati, esistono ancora cifre identitarie connesse ai luoghi di appartenenza? In che modo esse condizionano, in positivo o in negativo, lo sviluppo culturale delle comunità?
Vincenzo Trione: Ritengo che l’antitesi tra centro e periferia vada ripensata e riarticolata. Oggi le grandi città si presentano come cantieri sempre aperti e in divenire. Sono cosmi che, al loro interno, ospitano microcosmi marginali di straordinaria vivacità. Ogni metropoli ha al suo interno sacche di “periferia”. Penso al mondo underground e agli spazi di aggregazione giovanile, che si muovono accanto e al di sotto delle realtà consolidate del mainstream, contrapponendosi talvolta ai sistemi di potere. In fondo è come se il corpo delle grandi città generasse al suo interno autentici anticorpi: è qui la ricchezza delle “cosmopoli”. Una simile molteplicità di sfaccettature non è riscontrabile nelle periferie.
Andrea Bruciati: Nella vulgata è solo il termine centro quello che assume una valenza positiva, ma già Alois Riegl ravvisava nell’arte tardoantica delle periferie un’azione proattiva e non derivativa rispetto ai canoni classici. In Italia non sussiste questo dualismo (non esistono reali sacche metropolitane) e parlerei piuttosto di Provincia (non a caso ci chiamiamo Paese). La storia della Penisola vive su questo network orizzontale diffuso, multipolare e articolato che si traduce in dinamismo creativo per sua natura “laterale” (il Made in Italy viene elaborato nei famosi distretti). Inoltre la interconnessione con il globale azzera le “difficoltà” logistiche e la Provincia può conformarsi quale laboratorio sociale per dei cambiamenti concreti e capillari sul tessuto delle comunità.
Cosa significa oggi, per chi si occupa di arte contemporanea, operare in un grande centro oppure in una zona periferica? In che misura sussistono i rischi della standardizzazione da un lato e dell’isolamento dall’altro?
V.T.: Ogni grande città è un sistema ramificato che consente di entrare in relazione con una pluralità di soggetti e istituzioni: dalle gallerie alle accademie, dai musei alle fondazioni. Le metropoli offrono una vasta rete di esperienze, che coniugano mainstream e ricerca. Non vedo rischi di omologazione, ma ampi spazi di libertà: ci si può adeguare al sistema dominante o sperimentare modelli alternativi. Le periferie? Rischiano di essere ambienti ristretti, pur se talvolta vivaci. Certo, esistono eccezioni, ma penso che nei grandi centri possano ritrovarsi gli stimoli giusti per chi si occupa di arte contemporanea. Al massimo, si può scegliere di lavorare in periferia dopo aver vissuto intensamente il rapporto con una grande città, per trovare occasioni di solitudine e di riflessione. Ma la provincia è troppo lontana dall’impero.
A.B.: Libertà di progettazione e ricerca sono alla base del mio lavoro e credo che la qualità risieda dove si ha cura e tempo da dedicare alla nostra visione. Nei grandi centri le aspettative sono sempre più pressanti perché l’importanza risiede nel soddisfare esigenze quasi essenzialmente quantitative, mentre a me piacciono le iniziative in dialogo e pertanto realizzate con passione e abnegazione. Trovo intellettualmente svilente rincorrere una filiera internazionale, di cui saremo pur sempre fotocopia o replica sbiadita, per assecondare appetiti di cassetta o il nostro narcisismo. Ritengo invece che l’isolamento si verifichi solo se non si è predisposto un terreno poroso e permeabile, centro o periferia che sia, dove preferisco al contrario costruire qualcosa di vivo, prezioso per la crescita culturale della comunità.
Il percorso di ricerca di alcuni artisti è strettamente legato ai luoghi in cui hanno scelto di vivere e operare. Ci sono lavori che testimoniano la storia e l’evoluzione di un territorio, che si nutrono delle sue atmosfere e riescono a coglierne l’essenza. In altri casi un intervento artistico può essere talmente efficace e d’impatto da produrre concreti cambiamenti nel tessuto dei centri urbani o delle periferie. Se vi chiedessi di sviluppare l’argomentazione per immagini, quali scegliereste e perché?
A.B.: Come operatore culturale credo nei progetti articolati, tanto più se reificati nel tempo come format, perché rappresentano uno stimolo concreto per il territorio. Io opero solo in questa prospettiva: manifestazione fieristica, museo, associazione culturale o azienda privata, fondamentale è la comunità come interlocutore, senza sottostare a facili populismi o pressioni di sorta. Alcuni episodi che ritengo particolarmente significativi vedono il coinvolgimento di un pubblico eterogeneo per una notte come in Painting as Performance, dove mi piace il relazionarsi con i giovani autori in tempo reale; un’esigenza che ad ArtVerona ho riproposto nel format atupertu, volto a un confronto diretto e informale con gli artisti negli stand. Trovo estremamente interessante poi quando si innesca una progettualità solida: quando ad esempio l’artista deve definire continuamente il suo linguaggio come in Moroso Concept, per un confronto del “prodotto arte” in evidente agonismo con il design, o in molte delle attività svolte per Monfalcone durante la mia direzione. Non da ultimo trovo un senso profondo del mio operare quando si tracciano nuove strade e così si ribaltano certi pregiudizi qualitativi, come quello fra centro e periferia. Quanto è avvenuto recentemente per arteincentro o nei collateral di ArtVerona va in questa direzione: ipotizzo una rilettura della storia dell’arte contemporanea secondo una prospettiva che dal presente si riflette sul passato, vivificandolo.
V.T.: Il rapporto tra gli artisti e lo spazio urbano può essere declinato sostanzialmente attraverso tre strategie. La prima è quella dell’idealizzazione: la città si fa spazio metafisico, disabitato e silente. In questo senso, esemplare il lavoro portato avanti dalla tradizione della fotografia oggettiva tedesca e ripreso in Italia, tra gli altri, da Gabriele Basilico. La seconda strategia coincide con un atteggiamento teso a recuperare frammenti, rovine e relitti dello spazio urbano, che vengono assemblati, quasi accatastati, all’interno di installazioni concepite come architetture instabili ed evocative. Il Merzbau di Kurt Schwitters è la matrice storica fondamentale di questo approccio, che accomuna artisti come Thomas Hirschhorn (penso a un’opera come Plan B), Jimmie Durham o Cildo Meireles. La terza strategia, infine, interpreta la città come una pelle sulla quale intervenire: simili a quinte, le facciate degli edifici accolgono lavori capaci di determinare radicali trasformazioni del territorio. Rientrano in questa categoria le proiezioni e le poesie luminose di Jenny Holzer, ma anche le iniziative ideate dall’attuale premier albanese Edi Rama, quando era sindaco di Tirana, che hanno completamente ridefinito l’immagine della capitale albanese. Nel medesimo orizzonte iscriverei le esperienze della Street Art: spesso i writer vengono demonizzati, mentre ritengo che abbiano una funzione civile ed estetica di straordinario rilievo.
L’Italia, nel panorama artistico contemporaneo, si può considerare centro o periferia?
A.B.: Siamo un Paese derivativo per responsabilità politiche che non avvalorano la nostra identità culturale. Solo costruendo progetti condivisi, con visione e coraggio, possiamo ritornare al centro del dibattito.
V.T.: Un Paese che non riesce a essere forte del suo stile unico e inconfondibile, inteso come combinazione tra senso inquieto della storia e capacità di inventare il nuovo. E, insieme, un Paese afflitto dal virus della replica di modelli estetici internazionali assimilati passivamente.
Vincenzo Merola
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