Gianni Pettena e Marco Pace. Un dialogo a Milano
Galleria Giovanni Bonelli, Milano – fino al 24 febbraio 2017. Mentre Gianni Pettena occupa il cortile e il piano terra della galleria di via Lambertenghi, nel piano interrato Marco Pace, il suo inseparabile assistente, allestisce una mostra pittorica, scultorea e fotografica.
L’enorme scritta centrale CARABINIERI, nel mezzo della sala unica della Galleria Bonelli, si ricollega a tre modellini in carton-legno, apposti poco oltre alle pareti. Accompagnamento a un’antologica dedicata a progetti, interventi e attività svolte tra il 1968 e la fine degli Anni Settanta. Con questo lavoro, Gianni Pettena (Bolzano, 1940; vive a Firenze) dà vita a uno spartiacque, una barriera performativa esposta per la prima volta nel 1968. Un muro di cartone di una decina di metri per due in forma di parola: il cartone ondulato assemblato per mezzo di punti metallici in forme tridimensionali si componeva alla fine in una parola antica, altamente deperibile, in ogni suo riferimento esistenziale o ideologico.
Alle spalle di CARABINIERI, lungo le pareti della seconda metà della galleria, modellini e progetti della Clay house (1971) si confrontano con l’intervento Ice I (1971) e Ice II (1972), dopo aver mostrato le foto e la mappa originale della Red Line, (1972) sempre a Salt Lake City, senza dimenticare la torre/filtro del Tumbleweeds catcher (1972) le foto di Marea (1974), per arrivare alle enormi appendici di Applausi (1968).
Il curatore Marco Scotini, attraverso il percorso di Gianni Pettena. About non Conscious Architecture, si concentra sui progetti che l’artista ha sviluppato nei suoi anni americani in uno stato di mimesi con il paesaggio e di antitesi con i dogmi dell’architettura, ricostruendo un sentiero agitato, tra Land Art e disobbedienza, tra Smithson e Kaprow, tra anarchia e sovversione.
IL TESSUTO ITALIANO
La personale sistematizza seguendo un ordine diacronico, senza applicare alcuna frettolosa sintesi, la capacità di Pettena di rendere documentale, mnemonica e partecipativa l’impronta di ogni sovrastruttura dell’uomo, rievocando anche interventi inseriti in un tessuto complesso come quello italiano.
In mostra, l’esperienza di Campo Urbano (1969), attraverso foto in bianco e nero, si ripropone come una giornata dedicata a “interventi estetici nella dimensione collettiva urbana“, nel centro storico di Como, in piazza del Duomo, dove si svolse una serie di eventi prodotti da artisti come Giuseppe Chiari, Enrico Baj, Bruno Munari e, in aggiunta, Paolo Scheggi. Da Pettena, in quel frangente furono stesi alcuni panni e biancherie domestiche, clothes-line con le quali si intendeva sottolineare la differenza tra l’abitare e l’apparire di una città.
L’installazione si proponeva dunque di tracciare, metaforicamente e urbanisticamente, gli aspetti non solo visivi dello spazio urbano, violando l’immagine dell’ufficialità con l’inserimento di un elemento plebeo, platealmente fuori contesto. Le corde dei panni lavati e stesi ad asciugare nella piazza principale della città, ironizzando sulla staticità di quel contesto, raccontavano invece la città nel suo divenire, nel suo quotidiano, nella freschezza del vivere e non nella morte dell’apparire, ricordavano che i luoghi dell’ufficialità sono soprattutto spazi di ostentazione del potere ma che la città è anche, e forse soprattutto, luogo di disuguaglianza sociale e emarginazione.
L’INTERVENTO DI MARCO PACE
A distanza di un piano, Marco Pace (Lanciano, 1977) con Non finirò stanziale allestisce una personale che trascende dall’architettura per rielaborarne il paesaggio nomade, itinerante, talvolta viscerale e sovversivo, attraverso istantanee di appropriazione dello spazio, ritratte attraverso dipinti, disegni, fotografie e alcune maschere/scultura composte di apparente terra cruda.
Ginevra Bria
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