Versus. Il dibattito fra tradizione e attualità
In che modo l’arte modifica la società? Come entra in relazione con il nostro tempo? Quale peso hanno l’eredità della tradizione e le emergenze dell’attualità nel determinare gli sviluppi della cultura contemporanea? Alice Zannoni e Matteo Innocenti sono i protagonisti della settima puntata di “Versus”.
La consapevolezza di vivere in un’epoca storica di passaggio, in una fase di trasformazione radicale e dolorosa, è ampiamente condivisa. Non sembra però essere accompagnata dall’idea che la ricostruzione di uno scenario sociale e culturale in grado di metabolizzare la crisi richieda uno sforzo corale, un’elaborazione collettiva capace di creare reti di solidarietà e partecipazione. Non è il momento di incoraggiare le tensioni disgregatrici e l’egoismo particolarista, soprattutto in questa Italia antropologicamente ammalata di individualismo. Da dove si può ripartire per attivare vantaggiose e necessarie dinamiche comunitarie e associative? Bisogna proiettarsi in avanti, alla ricerca di spunti avanguardistici e rivoluzionari, oppure rivolgere lo sguardo al passato, per ricominciare a edificare su solide fondamenta? La co-fondatrice della fiera bolognese SetUp Contemporary Alice Zannoni e il critico e curatore Matteo Innocenti discutono di attualità e tradizione.
Giano, l’antica divinità degli inizi, è raffigurato con due volti e può guardare contemporaneamente il futuro e il passato. Anche chi si occupa d’arte deve essere bifronte? Da che parte conviene osservare con maggiore attenzione?
Alice Zannoni: Assolutamente sì, è implicita la complementarità tra i due aspetti e fermarsi in termini assolutistici a una delle due facce della moneta sarebbe un grande errore. Non si tratta di lanciare in aria la moneta, ma di farla roteare continuamente senza farla cadere, altrimenti è la fine. Naturalmente la tensione del moto è un divenire e l’osservazione, fatto tesoro della tradizione, deve avere il coraggio di posarsi sul presente e guardare anche oltre.
Matteo Innocenti: Concordo sulla complementarità dei due aspetti, ritengo che uno sia necessario all’altro in modo ineludibile: si ha la possibilità di interpretare il presente soltanto se si conosce anche il passato. Un artista che non approfondisca davvero la sostanza della tradizione si destina a produrre macerie – nel senso di una loro deperibilità in “tempo reale” –, un critico o curatore a sviluppare un discorso tra gli estremi della debolezza e dell’oscurità. Purtroppo è quanto mi pare stia avvenendo, in linea generale, adesso.
Ciò che è attuale, lo è per un momento e a volte non lascia traccia nella storia. D’altronde, in un’epoca che impone flessibilità, le solide radici della tradizione sono percepite più come zavorra che come sicuro ancoraggio. Può un’opera d’arte veicolare un messaggio universale e allo stesso tempo essere espressione di una sensibilità in sintonia con i propri tempi?
A. Z.: Personalmente non concordo con la visione delle radici come causa distonica dei tempi contemporanei, anzi, se “trattate con garbo”, sono proprio quell’elemento che rappresenta la salvezza, non tanto come rifugio (emotivo, creativo), ma come appoggio di contemplazione/osservazione sul mondo. Il tempo, la sua azione, il suo fluire sono inarrestabili, ineluttabili e di fronte a tutto ciò non possiamo e non valiamo nulla. Allora il principio della “non resistenza” può essere l’osservatorio privilegiato per gestire le “correnti di forza” del presente senza subirne il flusso e, al contrario, per ricavare uno spazio di azione al momento opportuno. Naturalmente questo implica l’esercizio della volontà, che alla fine è tutto per proiettarsi nel futuro. Per venire alla tua domanda, il DNA polisemico dell’opera permette l’universalità e allo stesso tempo la sintonia con i propri tempi, non è una questione di relatività di giudizio ma di relazionalità tra oggetto, soggetto, spazio e tempo.
M. I.: Insisterei ancora sulla non esclusività dei termini. Quando il passato ci sembra pesante a causa della sua eredità, domandiamoci se il problema non stia invece nell’incapacità di declinarlo in modo giusto per le necessità attuali. Il trascorso è uno stato potenziale che spetta a ogni generazione riattivare in vista di altro, ciò può avvenire sia nel verso dell’accordo che del disaccordo. Se però nella genesi dell’opera si opta per una sostanziale indifferenza verso quanto è stato, allora si manca l’obiettivo, la possibilità di quell’universalità a cui fai riferimento nella domanda. In questo senso potremmo dire che non c’è mai una contraddizione temporale, piuttosto un’eventualità dialogica sottoposta alla libera scelta e che perciò condurrà a differenti risultati.
Matteo, chi sono oggi gli artisti che ritieni abbiano studiato e assimilato la tradizione a tal punto da essere in grado di rinnovarla e interpretarla utilizzando i linguaggi contemporanei? Alice, quali tra le opere che hai osservato di recente, dal punto di vista formale e contenutistico, ti sembra riescano meglio a rappresentare (talvolta addirittura in anticipo sui tempi) gli attuali orientamenti della cultura e della società?
M. I.: Qualche esempio in forma sintetica, cercando di considerare uno “spettro” che sia rappresentativo di situazioni differenti. Ai Weiwei che frantuma un’urna Han, seppur per opposizione, asserisce l’importanza vitale della tradizione; lo stesso artista, in seguito, con l’installazione Reframe sul fiorentino Palazzo Strozzi, ha invece ceduto a un’interpretazione superficiale e strumentale del reale. Marina Abramović, nella sua celebre azione al MoMA, per fissità è simile a una kore greca, anche le pieghe del suo abito ricordano la scultura antica. Stefano Arienti, con le ninfee di pongo, tratta la luce con la stessa capacità degli impressionisti. Richard Moss, in The Enclave, unisce conversione concettuale – la pellicola a infrarossi in origine utile a fini bellici – e conoscenza dell’ancora breve ma densa storia della cinematografia. Un artista con cui ho lavorato, Satoshi Hirose, evoca con forme e materiali di estrema semplicità la tradizione filosofica orientale, soprattutto giapponese.
A. Z.: Premesso che ho un debole per il processo di produzione delle “cose/idee” e trovo una forte gratificazione nell’azione non determinata (quella, per intenderci, nella quale le contingenze possono cambiare il risultato finale, lasciandomi immaginare il divenire) penso che l’opera Helena di Marco Evaristti, per quanto discutibile, sia emblematica, perché ha messo il fruitore, un essere umano, di fronte alla possibilità di generare male e morte con un semplice click. Naturalmente ci sarebbe molto altro da dire sulle responsabilità, sulle conseguenze di un’azione, sul senso di colpa… Decisamente meno scioccante, ma altrettanto potente, è il lavoro di Arcangelo Sassolino: una sospensione temporanea in cui la tensione è portata al limite, l’equilibrio non si sa quanto possa durare, la meccanica diventa funzionale a essere metafora attiva delle leggi che governano l’universo, la plasticità della materia è bellezza nello sfinimento, consunzione, rottura e distruzione.
Come appare ai vostri occhi il mondo di oggi? Frenetico, iperattivo e insofferente? Passivo, bloccato e intorpidito? L’artista deve proporsi come modello di compostezza zen, oppure all’umanità serve una scossa violenta, capace di generare radicali cambiamenti?
M. I.: Viviamo attraverso un’infinità di dinamiche naturali e sociali, il problema specifico delle seconde è che in esse l’azione ora procede troppo più velocemente della riflessione. Da qui il paradosso dell’uomo che non sa riconoscersi in quanto crea. L’artista è un antidoto a ciò, e non ha da seguire altra regola che l’espressione incondizionata dalla propria individualità.
A. Z.: Il mondo è in tutti i modi, dipende da cosa guardo, e per fortuna non c’è un modello ideale di reazione per il quale l’artista “deve” essere o “deve” fare; come ha dimostrato la Abramović, per citare un’artista menzionata da Matteo, il silenzio può provocare più del rumore.
– Vincenzo Merola
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