Il ricorso al Tar di Virginia Raggi contro Dario Franceschini sul Colosseo
Un’articolata disamina sulla situazione delle politiche culturali romane, partendo dell’ultimo scandalo: il ricorso al TAR annunciato dalla Sindaca Raggi, per impugnare il provvedimento che istituisce il nuovo Parco Archeologico del Colosseo. Ovvero: come fare propaganda politica bloccando importanti processi di riforma (e non amministrando la città).
Riassunto delle puntate precedenti. Nel 2015 Ignazio Marino e Dario Franceschini firmano un accordo per la gestione dell’Area Archeologica Centrale di Roma. Poi Marino cade. Intanto Franceschini prosegue nel suo lavoro di riforma di tutti i grandi musei italiani (oggi dotati di autonomia e assegnati a direttori scelti previo bando internazionale) e di tutti i maggiori Parchi Archeologici. In vista della fine della Legislatura, Franceschini giustamente vuole completare il lavoro fatto e spinge sull’acceleratore. Così, a gennaio 2017, include nel progetto anche le poche – ma importanti – cose che erano rimaste fuori: Colosseo e Pompei.
Roma viene riorganizzata come segue: Colosseo, Arco di Costantino, Foro Romano, Palatino, Domus Aurea e Meta Sudans diventano Parco Archeologico, avranno un direttore scelto con bando pubblico e totale autonomia. Per il resto dei beni culturali statali della città ci penserà la Soprintendenza la quale avrà 30% degli incassi del Parco. Il 50% rimarrà al Parco per il suo sviluppo e la sua tutela e il rimanente 20% finirà, come oggi, al fondo di solidarietà nazionale, ovvero a beneficio di tutto il patrimonio “minore” che non ha la fortuna di sbigliettare all’impazzata come il Colosseo.
IL J’ACCUSE DI VIRGINIA RAGGI
A fronte di questa ambiziosa riforma, la sindaca di Roma Virginia Raggi, con una conferenza stampa convocata lo scorso 21 aprile (perfetto il Natale di Roma per fare polemiche e lanciare messaggi ostili contro altri pezzi del paese…), ha annunciato un clamoroso ricorso al TAR. Spiegando, insieme al suo assessore alla crescita culturale Luca Bergamo, che il decreto per l’istituzione del nuovo Parco non era cosa buona e giusta per la città e che pertanto sarebbe stato impugnato dal Comune.
Ed ecco il cuore della denuncia. La riforma finirebbe col creare a Roma aree archeologiche di serie A e di serie B. Ma, cosa ancora più grave, il Colosseo verrebbe in qualche modo sfilato, scippato alla città. Raggi e Bergamo, però, sanno benissimo che il Colosseo non è della città dagli Anni Venti e che nulla del perimetro delle competenze è mutato, così come nulla è mutato nella distribuzione delle risorse. Che, anzi, potrebbero anche aumentare se il Colosseo e il relativo Parco saranno gestiti in maniera volitiva dal punto di vista manageriale (al netto dei problemi contingenti di passaggio di consegne: ad esempio da venerdì scorso la Soprintendenza si è ritrovata senza cassa e senza conto corrente, ma sono faccende organizzative temporanee, non di sistema).
Il Comune di Roma, tuttavia, ha deciso di bloccare tutto: il ricorso, annunciato in pompa magna, rischia di far arenare nella Capitale una riforma che ha funzionato e sta funzionando dovunque in Italia, da Pompei a Brera, passando dalla Reggia di Caserta. Con amministrazioni comunali che dovunque hanno collaborato e ne hanno tratto benefici: a Roma no, a Roma si cerca di stoppare tutto.
Una vicenda puramente politica, se non di propaganda vera e propria. Che inspiegabilmente trascina la Capitale – già provata da scempi annosi, nonché da paralisi e inefficienze attuali – dentro una polemica amarissima. Una Capitale che porta in tribunale il suo stesso Stato. Incredibile. Virginia Raggi ha deciso di imbastire una guerra che apre uno scenario futuro di ostilità, contrario – questo sì – a qualunque interesse collettivo. In luogo di un’armonica collaborazione, una rappresaglia a colpi di ricorsi e di sabotaggi.
E sull’ipotesi che tutto ciò porti consensi alle urne ci sarebbe da discutere. Va bene (si fa per dire) il populismo, la rabbia sociale, l’antipolitica, la filosofia dell’essere contro, sempre e comunque, ma fino a quando? Esiste anche il momento della verifica. In cui l’elettore chiede fatti, azioni, risoluzioni. Fa raffronti. E a un certo punto tira le somme: oltre l’estetica dello sfascio, oltre la retorica del NO sempre e comunque, quali e quanti risultati si mettono in fila?
DOVE FINISCONO GLI INCASSI DEL COLOSSEO?
E le motivazioni principali riguardano, nel concreto, la distribuzione delle risorse. “Non posso accettare”, spiega la sindaca, “l’idea che ci siano aree di serie A e aree di serie B nella mia città, nella nostra città. È sbagliata la creazione di periferie e centro. Secondo il disegno del ministero, infatti, gli oltre 40 milioni annui di ricavi che frutta le gestione di Colosseo e Fori entreranno nelle casse del nuovo ente ministeriale, il Parco Archeologico. Mentre prima erano affidati per l’80% alla gestione della Soprintendenza speciale che in futuro dovrebbe ricevere solo il 30%”.
La risposta del Ministro Franceschini? Tranchant. Tutta in due paroline assai in voga ultimamente: fake news. Con tutto il carico d’irritazione che la vicenda ha potuto scatenare.
Informazioni fasulle, che alimentano l’idea secondo cui il Ministero sottrarrebbe risorse o patrimonio a Roma e, come va ripetendo Raggi con retorica alemanniana “ai romani”. Idea subito smentita dal Ministro: “Ora ripeto in due righe la verità, che risulta dagli atti e non è contestabile: prima delle riforma l’80% degli incassi restava su Roma per il Colosseo, i Fori e il resto del patrimonio statale, mentre il 20% andava al fondo di solidarietà nazionale, come fanno tutti i musei statali italiani a favore dei musei più piccoli; dopo la riforma l’80% degli incassi resta su Roma per il Colosseo, i Fori e il resto del patrimonio statale, mentre il 20% va al fondo di solidarietà nazionale, come fanno tutti i musei statali italiani a favore dei musei più piccoli. Notate qualche differenza?”.
Lapidario, Franceschini, che semplicemente riporta i dati di ieri e quelli di oggi (per verifica: vedere il DM 12 gennaio 2017 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale Serie Generale n.58 del 10.3.2017). Con una conclusione: non cambia assolutamente nulla a livello di budget. Di quell’80%, il 50% andrà ai siti dell’area archeologica centrale e il 30% a quelli nel restante territorio della città, di competenza della Soprintendenza speciale di Roma (che arriverà a ottenere così circa 11 milioni di euro annui in media, a cui si aggiungeranno i trasferimenti assicurati dal Ministero).
Mai è accaduto che gli incassi del Colosseo fossero trasferiti al Comune di Roma. E per fortuna, perché li avrebbe dilapidati come purtroppo fa con quasi tutte le risorse che gli passano tra le mani.
La cosa strabiliante, in effetti, è che un ente come il Comune di Roma, incapace da 10 mesi anche solo di nominare un Capo di Gabinetto o una Giunta completa, incapace di gestire in maniera dignitosa e efficiente anche soltanto un’aiuola o una toilette pubblica, un ente che non è stato in grado di dare un senso e una spina dorsale alla propria politica culturale, un ente che proprio nell’area del Colosseo, negli spazi che gli competono, non riesce e neppure prova a contrastare abusivismo, vandalismo, racket di ogni genere, si permetta di mettere i bastoni tra le ruote allo Stato che, magari necessitando di correzioni alla sua azione, prova finalmente a riformarsi. Peraltro applicando nella Capitale modelli che altrove stanno funzionando.
LA RIFORMA E L’AUTONOMIA
Il decreto che il Comune di Roma ha impugnato – mentre è in corso, da parte di una commissione di esperti, la valutazione degli 84 i candidati in lizza per assumere il timone del Parco – è dunque l’ultimo tassello di un processo di riforma dei musei e dei parchi archeologici statali, a cui viene finalmente assicurata una vera autonomia tecnico-scientifica, come già – solo per restare a Roma – è avvenuto con Villa Giulia, Galleria Borghese, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e molti altri siti. Il successo della Riforma Franceschini è un fatto. Basti pensare alla rinnovata vitalità della Reggia di Caserta, guidata dal vulcanico Mauro Felicori. Ma ai Cinque Stelle – sfacciatamente orientati alla conservazione dello status quo e contrari ideologicamente a qualsiasi reale innovazione – la cosa non sta bene. Non è chiaro se il problema sia che il cambiamento arrivi da un governo a guida PD o se a dar fastidio è una gestione trasparente, con bandi di concorso ministeriali, con un coordinamento centrale che assicuri omogeneità e solidità strutturale ai musei e i parchi, resi autonomi dal punto di vista amministrativo, gestionale, progettuale, tecnico-scientifico, e dunque più snelli, veloci, autorevoli, competitivi.
Semmai, visto il livello di lottizzazioni e clientele con cui sono gestite a quasi tutti i livelli le nomine dal Comune di Roma, c’è da rallegrarsi che almeno sull’Area Archeologica Centrale il Comune non possa mettere bocca più di tanto. O magari quello che spaventa è la perdita di nerbo sul mondo di mezzo delle mille attività collaterali che insistono sull’area: dal commercio ambulante alla ristorazione, dalle guide turistiche agli autobus. Questioni che smuovono altri milioni di euro e che soprattutto spostano migliaia di voti.
APPUNTI ALLA RIFORMA FRANCESCHINI E CRITICHE ALLA GIUNTA RAGGI
Certo, il modello Franceschini, per quanto riguarda l’area del Colosseo, non è esente da critiche. Noi stessi ne sollevammo alcune, riflettendo su quanto potesse diventare autoreferenziale la costituzione di un organismo isolato, sconnesso da tutto il resto: un’eccellenza potentissima, un feudo chiuso in sé stesso, con enorme attrattiva, ma col rischio di una mancata relazione (se non di un conflitto) con gli altri siti cittadini. Assetto che potrebbe generare divisioni anziché auspicabili collaborazioni. È e sarà un tema da governare, nell’abito di una collaborazione che dovrà subito essere costruita tra neo direttore del Parco e Soprintendente. E tra loro con il Comune. A proposito: il direttore del Parco come farà a collaborare serenamente con un Comune che ha cercato di far saltare la sua nomina appellandosi al tribunale amministrativo?
Le critiche possibili al provvedimento Franceschini, tuttavia, sono valutazioni che poco o nulla c’entrano con le accuse mossa dalla sindaca Raggi, preoccupata di recuperare gli incassi del Colosseo e spaventata dalla presenza dello Stato. “Non posso sorvolare”, ha scritto, “sul fatto che lo Stato centrale voglia gestire, in totale autonomia senza consultare nessuno, il territorio della città che, invece, è patrimonio dei suoi cittadini”. Ma in che senso? Lo Stato non è forse l’intera comunità dei cittadini italiani? Il Colosseo appartiene solo ai romani o è un bene universale? A chi verrebbe “rubato”? E qui è palese lo iato tra Ignazio Marino (che faceva sempre riferimento nella sua narrazione “alla turista che viene da Perth”, per significare apertura internazionale e attenzione a chi viene a trovarci dall’altro capo del mondo) e Virginia Raggi (che continua a riferirsi “ai romani”, ignara di gestire una città che non è dei romani ma del mondo).
E ancora, chiediamo, come fa una Giunta che sta gestendo il sistema della cultura romano con un sostanziale immobilismo e con scarsi segni di innovazione, a dare lezioni al Governo? Una Giunta che non ha dimostrato alcuna reale qualità politica, che non sostiene il peso di una città titanica, malandata e complicatissima, e che non si è ancora capito – al di là della fuffa verbale – quale visione abbia in fatto di politiche culturali. Una Giunta, che, in linea con l’ideologia pentastellata, demonizza qualunque progettualità di ampio respiro, rifiuta risorse per investimenti pubbliche e soprattutto private, non coltiva il mecenatismo in alcun modo, non è stata in grado in un anno di assegnare un direttore al Macro, tiene ancora in sospeso il futuro del Palazzo delle Esposizioni, e ha trasformato i musei cittadini in location in affitto, nell’assenza di politiche culturali rigorose e di direzioni forti, improntate alla produzione e alla qualità. Senza che, per tornare all’accordo di cui nelle prime righe, si sia neppure portato avanti il progetto di riunificazione gestionale dei Fori, per cui tutto quello di cui abbiamo parlato (il Parco del Colosseo appunto) nascerà con un buco in mezzo: ancora chissà per quanto, una parte dei Fori è di proprietà dello Stato e un’altra (quella dei Mercati di Traiano, per capirci, a proposito di spazi in affitto e di mostre imbarazzanti) di proprietà del Comune. Ignazio Marino lavorava per superare questo problema antico, Raggi lavora per fare ricorsi al TAR.
Roma dunque è al collasso, ma si trova il tempo per fare ostruzionismo al Ministero, arrivando a scomodare i tribunali. Forse nella speranza di cavalcare una certa mitologia giustificazionista: se la città è paralizzata la colpa è del governo che non fa abbastanza, che sottrae risorse, che accentra e fallisce. Come strategia di comunicazione non è nemmeno male. Ma quanto ancora potrà funzionare?
IL FATTORE ISTITUZIONALE
Una piccola nota poi dovrebbe essere fatta sulle tempistiche e le modalità di questo episodio e dei suoi protagonisti. Dunque: venerdì 21 aprile Raggi e Franceschini tengono una conferenza stampa al Campidoglio, insieme. Raggi non avvisa Franceschini di quel che sarebbe accaduto di lì a poco. Dopo pochissimo Raggi convoca una conferenza stampa d’urgenza e col solito discorso mal recitato da telenovela sudamericana annuncia l’attacco al Ministero (sentitelo tutto, ché merita: alla fine del discorso di Raggi c’è anche la tirata contro i soldi e contro la mercificazione. Ma sviluppare la cultura e creare opportunità di crescita e lavoro poco importa a chi guadagna 10mila euro al mese). Uno sgarbo e una cafonaggine istituzionale che dicono tutto sui reali intenti dell’operazione.
Poi, il giorno dopo, Luca Bergamo e il suo collaboratore Luca Montuori, diventato assessore all’Urbanistica, se ne vanno al MAAM – Museo dell’Alto e dell’Altrove, tra i mille musei della città l’unico – sebbene assai interessante dal punto di vista socio-antropologico – che sta in uno spazio occupato, dunque illegale. Provate a chiedere a Luca Bergamo quante fondazioni private ha visitato, quante gallerie d’arte di imprenditori seri è andato a vedere, quanti studi d’artista frequenta. Il messaggio è chiaro da mesi: se ti comporti in maniera civile, l’amministrazione non ti considera, se invece occupi, fai forzature, o comunque ti muovi fuori dai circuiti regolari (e il riferimento è a diverse realtà che il Comune ha coperto e si propone di coprire in futuro) allora hai tutto l’appoggio e l’attenzione. E magari chissà, visto che sta simpatico all’assessore Bergamo, il direttore del MAAM diventerà presto capo del Macro (così dicono i rumors): questo il modello di selezione della classe dirigente culturale, proprio mentre l’amministrazione pensa a fare ricorso contro trasparenti e regolari bandi di gara ministeriali per la scelta di direttori di livello internazionale.
La considerazione più amara? Verificare che alla fine i giudici, la magistratura e i funzionari pubblici, pagati dalle cospicue tasse di tutti, invece di occuparsi di faccende serie, di combattere il malaffare e di rendere il paese un posto più ospitale e civile per chi ci vive e per chi ci investe, debbano essere distolti da chi li strumentalizza per manfrine politiche di bassa propaganda. Cosa che vale sia in caso di vittoria, sia in caso di sconfitta dell’imbarazzante ricorso.
Helga Marsala e Massimiliano Tonelli
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