I paradossali splendori del Cinquecento, in mostra a Firenze
A Palazzo Strozzi va in scena il terzo capitolo della trilogia sul Cinquecento, dopo Bronzino nel 2010 e Pontormo e Rosso nel 2014. Adesso un’approfondita antologica di 75 opere spiega il clima artistico della Firenze dell’epoca, dove convissero arte sacra e arte profana, nel momento cruciale di passaggio dall’Età Antica all’Età Moderna. Che non fu, al contrario della vulgata, un’epoca di decadenza artistica.
La Firenze del Granduca Cosimo I fu certamente una delle più splendide e vive città d’Europa, dove a una società operosa di banchieri, mercanti e artigiani si affiancava una comunità artistica che nel mecenatismo locale trovava la condizione ideale per creare quella bellezza che ancora oggi ci affascina, e che all’epoca ebbe anche funzioni di educazione del popolo; attivissima fu infatti la Chiesa Romana nel combattere la Riforma Luterana e, in tempi di analfabetismo diffuso, gli affreschi e i dipinti dei luoghi di culto erano il veicolo migliore per propagandare la dottrina della Fede. A questo mecenatismo se ne affiancò anche uno privato, in gran parte legato alla corte medicea, che non ebbe remore nel richiedere quelle tematiche profane e sensuali della mitologia greca, così come apprezzò la ritrattistica mondana, evidenza della forte impronta che l’Umanesimo aveva lasciato in Toscana.
L’AFFLATO UMANISTA E LA RELIGIONE
A dispetto di quanto si è portati a pensare, ovvero che il secondo Cinquecento sia stata una stagione artistica sterile e decadente rispetto agli splendori dell’inizio del secolo, la mostra fiorentina dimostra altro, attraverso un’intelligente e non scontata scelta di opere, congegnata dai curatori Carlo Falciani e Antonio Natali, che spaziano dai maestri Andrea del Sarto, Rosso Fiorentino, Pontormo e Michelangelo, con i quali prese corpo il Rinascimento, per proseguire con Bronzino, Salviati e Vasari e giungere ai decenni cruciali raccontati da Santi di Tito, Jacopo Ligozzi, Jacopo Zucchi, Maso da San Friano, artisti meno noti, questi ultimi, tuttavia portatori di un linguaggio artistico vivace, a suo modo anche mondano, e sicuramente moderno. Se la Chiesa affidava committenze avendo quale obiettivo la giustezza del culto, questa esigenza trovò una fiorente creatività artistica che si pose al suo servizio, così come fece per l’ambito privato e laico. Sacro e profano, il dogma e la sensualità sono affrontati con il medesimo impegno, per la gloria di Dio e degli uomini.
LA PITTURA CONTRORIFORMATA
In campo religioso, La Pietà di Luco (1524) di Andrea del Sarto coniuga l’esigenza artistica a quella della committenza religiosa: esprime infatti il mistero della transustanziazione, illustrando la reale presenza del corpo e del sangue di Cristo nell’ostia consacrata e ribadendo il diritto/dovere della Chiesa Romana di rievocare il miracolo nell’occasione delle funzioni religiose, smentendo Lutero che ne faceva soltanto un fatto simbolico e spirituale; si tratta di un’opera ligia alla Controriforma, eppure artisticamente importante, perché il pittore modernizza la lezione di Michelangelo donando nuovo dinamismo alla monumentale plasticità dei corpi e aggiungendo effetti cangianti ai brillanti colori dal sapore raffaellesco. Questi sono gli albori della maniera moderna, seguiti, in campo religioso, da Pontormo, Rosso Fiorentino e Santi di Tito, che alla Controriforma fu probabilmente l’artista cinquecentesco più ligio.
Oltre al linguaggio estetico che esprimono, le pale d’altare sono interessanti documenti politici che spiegano le difficoltà dell’Italia contemporanea: uno Stato mai del tutto nato, anche a causa della strategia del divide et impera di una Chiesa che ha sempre ostacolato l’unità preferendo una galassia di piccoli Stati su cui imporsi più efficacemente; una strategia portata avanti anche combattendo quella Riforma Luterana che parlava direttamente alla coscienza civile del popolo.
IL LIMITE DELL’ARTE SECOLARE
Quel mecenatismo che la Chiesa dimostrò nei confronti di umanisti e artisti rinascimentali fu un accorto modo per controllare la diffusione di idee e meccanismi di pensiero che avrebbero rischiato di incrinare la cieca fede delle masse analfabete, lontane anni luce da Marsilio Ficino, Platone, Plotino, così come da Machiavelli e Guicciardini. A differenza dell’Illuminismo, il Rinascimento non influì sulle coscienze della massa, alla quale non sentì mai il bisogno di rivolgersi. Nessuno, in Italia (tranne Ochino e Carnesecchi) raccolse l’appello che Lutero rivolgeva alla coscienza civile (appello del resto subito condannato da Roma), e pochi furono i segnali di risveglio. Nei limiti del possibile, c’erano comunque isole felici dove la circolazione d’idee, anche se su piccola scala, era un’opportunità. La pittura “secolare” del secondo Cinquecento ebbe esponenti quali l’Allori, Ligozzi, Maso da San Friano, Mirabello Cavalori, il Poppi e Girolamo Macchietti, che ritrassero l’aristocrazia fiorentina desiderosa non soltanto di celebrarsi, ma di lasciare traccia di se in quanto ceto sociale composto da individui depositari di valori, usi e costumi ‒ dalla caccia alla passione per le arti ‒, orgogliosamente mondani. Ecco che si parla dell’uomo, delle sue aspirazioni, di quella vita quotidiana che è l’essenza del suo esistere. Così come la pittura della maniera moderna seppe affrontare con sfolgorio di colori e sensualità di forme l’universo tematico della mitologia greca, andando al di là della funzione politica che sin lì aveva avuto, in chiave celebrativa della potenza medicea. A ciò si aggiunge la committenza privata che dimostra di apprezzare la vivacità di un’arte “di narrazione”, con i suoi rimandi alla virtù e al piacere.
Timidi segnali di affermazione di una cultura civile, ancora strettamente e colpevolmente elitaria, che conoscerà una (relativa) dilatazione nel XVII secolo. Le radici comunque si formarono nel Cinquecento e la valenza di mostre del genere sta anche nel saper spiegare, fra le righe, la genesi controversa della coscienza civile italiana.
‒ Niccolò Lucarelli
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