Storie di pane e artisti. Da Man Ray a Piero Manzoni
Vi raccontiamo la storia di Lionel Poilâne, mitico panificatore che tanto collaborò con Salvador Dalí. Ma il legame fra arte e pane non si ferma certo a loro.
Il fornaio manipola e massaggia l’impasto d’acqua e farina, giunge prima o poi a dargli una forma e finisce per inserirlo nella bocca del forno per la cottura. Servendosi degli stessi gesti di un artista che plasma l’argilla per creare una scultura. L’arte della panificazione. La differenza tra queste due attività sta dunque soltanto nella materia? Lo scultore davanti al forno ha una scelta piuttosto limitata, mentre il panettiere può spaziare dal frumento al mais, dalla segale al farro attraversando tutti i vari tipi di cereali. E ottenendo sapori e consistenze diverse. A parte il gusto (le sculture, di norma, non sono così saporite) è proprio l’aspetto esteriore e la sua densità a fare la differenza. La superficie del pane può essere liscia o ruvida, morbida o croccante; e all’interno la sensuale mollìca, con la varietà della sua alveolatura, può renderlo più leggero o compatto. Ma il pane è anche deperibile, nel suo essere vulnerabile se sollecitato sia meccanicamente che dal tempo e dagli agenti meteo-biologici. In caso contrario sarebbe soltanto una questione di forma. Una parte della panificazione.
Si potrebbero realizzare col pane monumenti equestri, busti di personaggi celebri o semplici “ritratti” ricavati dal calco del solo viso come ha fatto César nel 1973, con l’aiuto del maestro panificatore più celebre di Parigi, Lionel Poilâne. Prima di lui, lo stesso fornaio aveva lavorato con Man Ray e soprattutto con Salvador Dalí che, da sempre, è stato attratto dall’immagine e dalla sostanza del pane: “Il pane è sempre stato il tema più feticista e ossessivo del mio lavoro, quello al quale sono sempre rimasto fedele”.
Aveva cominciato a dipingerlo su tela nel 1926, affettato e adagiato in un cestino in una fedelissima copia dal vero, e poi nel 1945, sempre con la sua meticolosa tecnica pittorica ma da un altro punto di vista: questa volta nella corbeille sta una pagnotta spezzata a metà con le mani.
Qualche anno dopo, il 12 maggio del 1958, in occasione della Fiera di Parigi, era possibile vedere lo stesso Dalí, accompagnato da Georges Mathieu e da una schiera di panettieri mascherati con baffi finti, sfilare per le vie in una sorta di processione che santificava una baguette lunga ben dodici metri.
È il lievitato presupposto al vero capolavoro, che sfornerà tredici anni dopo: nel 1971 Dalí desidera fare un regalo unico e originale alla moglie Gala e chiede a Lionel Poilâne di costruire l’arredamento di un’intera camera con il letto, l’armadio, il lampadario e il televisore fatti di pane. Sembra che il panificatore abbia accolto questa richiesta con sicurezza ed entusiasmo, precisando però l’impossibilità di realizzare il televisore perché “sarebbe tecnicamente complicato, a causa dell’elettricità”. L’oggetto più impegnativo è stato l’armadio, alto un metro e settanta e pesante circa settanta chili (di cui trentacinque di farina) per il suo contenuto d’umidità. Soltanto i suoi sportelli avevano le cerniere in metallo e nei suoi cassetti stavano delle posate, anch’esse, ovviamente, fatte di pane e dunque commestibili, in caso di necessità. Di questo “arredamento” è rimasto soltanto il lampadario, con i suoi sei bracci arcuati che reggono le lampadine.
Questa complicità tra l’artista e il panificatore è proseguita con il progetto di costruzione di una megapagnotta (tre metri e mezzo di diametro per un metro e mezzo d’altezza) che “rappresentasse tutto il pane mangiato da una persona nell’arco della sua vita”. E infine, nella sintesi architettonica di un’intera vita, concretizzata nel Castello di Figueras, sta la vera apoteosi dell’artista spagnolo, il panegirico del pane che decora tutte le pareti esterne con una forma del tutto inconsueta per l’alimento, una sorta di tricorno simile al cappello da torero che nella sua surreale quanto regolare ripetizione riprende ed enfatizza l’indissolubile rapporto tra la funzione della pagnotta e il suo aspetto esteriore.
Al di là della sostanza farinosa, il pane ha assunto nell’arte un’elevata carica simbolica nella sua qualità di cibo primario ed essenziale per tutte le culture. E questo suo significato, al di là della pur fondamentale nutrizione, si può manifestare con le forme più bizzarre, che non sempre hanno una banale giustificazione legata all’ottimizzazione del risultato nella cottura. Se Piero Manzoni allinea e incolonna una serie di michette lombarde, Wolf Vostell spazia dal Prager Brot (pane di Praga) al Berlin Bread (pane di Berlino) fino a servirsi di centinaia di baguette avvolte in carta da giornale per circondare e blindare una Cadillac nell’installazione Energia del 1973.
E continuando nella dematerializzazione del pane a favore della sua importanza universale, non si può ignorare il capolavoro tautologico di Erik Dietman, quella scritta PAIN (1967) realizzata con bastoni di pane: lo scontato significato in francese si unisce al “dolore” della sua lettura in inglese. La mancanza di pane è davvero una pena.
Carlo e Aldo Spinelli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #33
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