Il gioco del rovescio. Judith Hopf a Bolzano
Museion, Bolzano – fino all'8 gennaio 2017. Trenta lavori tra video, sculture, installazioni, collage. L'artista tedesca mette in scena infinite storie di piccoli grandi intoppi quotidiani. Con arte sottile e ironica, pone in questione le nostre certezze e le nostre abitudini personali e sociali.
Un fulminante avverbio di luogo, “Up”, dà il titolo alla prima personale in un museo italiano della tedesca Judith Hopf (Karlsruhe, 1969; vive e lavora a Berlino). “Up” sta per tensione verso l’alto, ma anche per difficoltà a raggiungerlo, interruzione, colpo di scena, suspense. “Up” è una continua sospensione o vacillazione del senso, un infinito scontrarsi con ostacoli, inadeguatezze, inciampi visivi.
Solo che il tutto è ottenuto dalla Hopf con un tale atteggiamento ironico e giocoso che, se da una parte “decostruisce” certezze, luoghi comuni, convenzioni sociali, dall’altra ci introduce nella sua sfrontata disponibilità al trucco, al sotterfugio. L’artista non lancia il sasso e poi nasconde la mano, ma esibisce proprio la plausibilità dell’assurdo, l’imprevedibilità del luogo comune, l’eternità dell’istante passeggero. Con dei mattoni scolpisce un pallone da calcio o un trolley da viaggio: è l’inganno palese, il paradosso lampante che ci viene mostrato. Ma con gli stessi mattoni costruisce anche dei muretti che tagliano e suddividono lo spazio, facendosi autentici elementi architettonici. E guarda pure al passato, realizzando piedi, dita, mani che rimandano ai colossi di epoca romana.
UNA DIMENSIONE IMPERFETTA
Ma la Hopf vuole che le sue opere dialoghino con il paesaggio, con i monti, con la città di Bolzano. Ed ecco, allora, il suo gregge di pecore (Flack of Sheep), creature in cemento che vengono da scatole di cartone o Raben, una serie di porcellane nere dalla vaga sembianza di corvi, plasmate partendo da custodie di medicinali. Come a dire che tutto è da leggere al di là di ciò che appare. La stessa struttura minimale a cui i vari elementi sembrano rifarsi è irrisa: la serialità, l’assenza di contenuti, l’ascetismo formale si rovesciano in una sorta di dimensione imperfetta, goffa, buffa.
UN CIRCUITO DI EQUIVOCI
Ed è anche quello che si ritrova nei film della Hopf (spesso proiettati in angusti spazi chiusi, da lei stessa costruiti). Da Husse 2, dove un Suv perde il controllo su una strada di montagna a Some End of things: the Conception of youth, in cui un uomo travestito da uovo gigante si muove impacciato tra vetri e muri di un’architettura modernista. È sempre uno stato di costrizione e di imprigionamento da superare, un desiderio di affermazione soggettiva che suggerisce il lavoro dell’artista. È un bisogno di minare le strutture del reale, di rompere gli schemi, di ribellarsi come fa la ragazza di Lily’s laptop, che si vendica di una privazione allagando un intero appartamento. Un vero mondo di sovversioni, un circuito di equivoci, un relais di intenzioni e di soluzioni ambigue.
Luigi Meneghelli
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