Da ArtVerona a Villa Adriana. Intervista ad Andrea Bruciati
Recentemente eletto tra i nuovi dieci superdirettori dal MiBACT, Andrea Bruciati sta per prendere in mano le redini di Villa Adriana e Villa d’Este a Tivoli. In questa intervista racconta la storia del suo iter curatoriale, da sempre all’insegna dello scouting e della sperimentazione.
Da direttore della Galleria Comunale d’Arte contemporanea di Monfalcone a direttore artistico di ArtVerona, la carriera di Andrea Bruciati (Corinaldo, 1968) ha conosciuto una serie di stimolanti cambiamenti, che hanno sottolineato l’importanza di un approccio sperimentale e votato all’apertura. A poche settimane dal nuovo incarico di direttore di Villa Adriana e Villa d’Este a Tivoli, il curatore marchigiano evoca le tappe del suo percorso professionale.
Partiamo proprio dall’inizio. Quando, come e per opera di chi è nato il tuo rapporto con ArtVerona, la fiera che ora sei “costretto” a lasciare?
Nel 2008 ArtVerona mi incluse nel programma Vip in qualità di direttore della GCAC di Monfalcone e l’anno successivo formulai il format On Stage che indagò per quattro anni sui protagonisti della ricerca in Italia per categorie di appartenenza (dalle gallerie agli artisti, dai collezionisti ai curatori): realizzai delle mostre ritenute veggenti come Gli Argonauti e I numeri primi. Terminata in seguito l’esperienza di Monfalcone, ero pronto ad affrontare la sfida di un nuovo incarico, pur non venendo meno alla sperimentazione e allo scouting che mi hanno da sempre contraddistinto.
In quegli anni la fiera in che condizioni versava? Quali bisogni aveva, quali esigenze?
Era una manifestazione organizzata da una società privata che aveva saputo ritagliarsi una sua rilevanza nel clima di grande effervescenza economica che accompagnava la nascita del sistema fieristico italiano. Ben organizzata, con un parterre consolidato di gallerie d’arte moderna che anche in seguito ci ha sempre dato fiducia, era una manifestazione che proprio dal 2008 sentiva l’esigenza di dover intraprendere un percorso culturale per affinare il parterre, aprirsi alla novità e definire un suo personale iter identitario.
Il tuo progetto si è formato da subito e poi è stato via via applicato o ha preso forma negli anni?
Concettualmente ho impostato fin da subito la mia visione sulla progettualità e la ricerca di una contemporaneità non derivativa, ma è con l’arrivo di investimenti nella manifestazione da parte di VeronaFiere che la metamorfosi ha subito una accelerazione.
Quali sono state le linee guida filosofiche, organizzative, culturali e curatoriali che hai cercato di imporre alla manifestazione?
Ho ipotizzato un modello alternativo all’offerta fieristica nazionale e mainstream, dando vita a una manifestazione che fosse innanzitutto un volano culturale e di promozione economica che traesse linfa dalle caratteristiche sociali e antropologiche del territorio secondo un’egida filosofica “queer”, diagonale. La mia impostazione curatoriale era frutto di una coscienza che non demonizzava l’aspetto commerciale, ma delineava una sorta di “linea rossa” virtuosa in cui la sperimentazione, il mettere a sistema una “fiera espansa 2.0”, lo scouting e delle modalità differenti di collezionismo dialogavano in maniera rizomatica, dando luogo a volte a dei risultati imprevedibili. Devo aggiungere che è stato possibile affrontare questo cammino, rimanendo coerenti con le linee di sviluppo accennate, grazie alla continua condivisione con il team che mi ha affiancato.
Cosa è andato per il verso giusto e cosa invece no? Di cosa sei contento e cosa invece ti lascia, dopo tutti questi anni, l’amaro in bocca?
Sicuramente l’aver creduto nel made in Italy di qualità così come l’aver creato ex novo una piattaforma culturale con la città e i soggetti attivi che vi operano; non da ultimo il legame umano con il team. Mi spiace invece non poter lavorare su Arte & Impresa, sviluppando il mio format Open Source, perché penso sia una della grandi potenzialità di ArtVerona quale piattaforma imprenditoriale fondata sull’innovazione.
La sezione Independents è quella che probabilmente ha reso più celebre e copiata ArtVerona: ci racconti la genesi dell’idea?
Nata da un’idea di Cristiano Seganfreddo, che ne è il curatore, è stata il polmone non profit e il laboratorio creativo da cui in fondo si è sviluppato il progetto di una manifestazione dove risultasse centrale il ruolo della ricerca autonoma e totalmente libera. Anche grazie a Independents ho potuto forgiare un modello di fiera alternativo, quale luogo di pensiero e di condivisione. Il supporto fondamentale della vostra testata come media e il riconoscimento da parte del Maxxi, ora che anch’esso è divenuto nostro partner, hanno contribuito a renderla un format unico.
Cosa auspichi per il futuro di ArtVerona senza di te?
Lascio ArtVerona a un gruppo di persone molto motivato che assieme a me è cresciuto e sono convinto che saprà migliorarsi sulle linee di indirizzo che ho impostato. Sono felice che miei concetti basilari e perseguiti da anni come l’italianità, la fiera espansa e la sperimentazione vengano solo ora “scoperti” da fiere più blasonate: la cosa certa è che ArtVerona è stata una fucina di idee incredibile (ogni edizione nuovi format, una messa in gioco totale per un incubatore coraggioso e pioneristico di idee), che componeva un progetto differente di manifestazione, al momento ineguagliato in Italia. Il fatto che ispiriamo altre manifestazioni ne è la conferma. Certo auspico che si trovino sponsor e investitori per maggiori investimenti perché il disegno lo merita e rappresenta un unicum.
Passiamo al tuo nuovo incarico. Come credi di essere riuscito a colpire e convincere la giuria? Quali corde ha toccato il tuo progetto?
Forse mi hanno visto come un candidato marziano caduto sulla terra e hanno pensato che dei luoghi unici meritavano una visione dall’alto: a volte Astolfo sa indicare nuove prospettive… Credo che delle competenze a largo spettro, l’essere versatili con il contesto in cui si interviene, una passione viscerale per il lavoro e il mettersi professionalmente sempre in gioco abbiano fatto il resto.
A livello di staff e budget, com’è la situazione che ti ritroverai a gestire a Tivoli?
Questo potrò descriverlo con maggior dettaglio nel momento in cui inizierò a prendere servizio, ma la prima sensazione è positiva e mi sembra che tutti vogliano sinceramente rilanciare i monumenti.
Vivrai a Roma o starai proprio a Tivoli?
Vivrò a Tivoli perché voglio dare un messaggio chiaro al territorio tiburtino: sono qui per impegnarmi in prima persona e intendo ribadire la magnificenza assoluta di questi luoghi valorizzando la loro anima alla luce di una sensibilità tutta contemporanea.
La città di Roma vive un periodo delicatissimo in questi anni e in questi mesi. Ti sei fatto un’idea a riguardo? Quanto c’entra la cultura in tutto questo?
Associo Roma al tramonto che ammiro da Villa d’Este… Non mi sono fatto ancora un’idea a riguardo, ma la cultura è un valore etico su cui una comunità sana si costruisce.
Cosa vuoi portare a Tivoli a livello di educational e politiche di inclusività?
Vorrei che una struttura articolata e a più voci fosse come un organismo liquido che intende creare ponti fra il passato e il nostro presente per mille futuri plausibili. Mi auguro che la comunità, a partire da chi vi lavora al suo interno, ami sempre più questi spazi e ne sia orgogliosa, comprendendo che grazie alla Cultura si può essere cittadini migliori. Costruire una società dove tutti possano agire con maggiore consapevolezza grazie al mio apporto progettuale è sempre stato un diktat per me fin dal 2002.
Ti abbiamo conosciuto, al tuo esordio, come un giovane direttore che ha trasformato un piccolo museo di provincia, a Monfalcone, in un hub per l’arte contemporanea ed emergente. Ora ti troverai a dover “gestire” flussi turistici mastodontici. Come si deve adattare la politica curatoriale e manageriale a due contesti così diversi?
Io assecondo la mia idea di “visione differente” sempre traendo spunto dal contesto in cui vado a operare, con grande rispetto per le radici culturali dei luoghi. In ogni caso imposto una sfida sia con me stesso che con chi fruisce del mio operato per imbastire nuove traiettorie secondo una logica qualitativa, assumendo un atteggiamento di ascolto. Ritengo che l’esperire il dato estetico in maniera attiva, e non come semplici consumatori, sia un principio deontologico inderogabile che può accomunare due situazioni solo in apparenza così distanti.
Chi conosce il tuo percorso si aspetta da te un progetto che abbia anche a che fare con l’arte contemporanea. Riuscirai a inserire contaminazioni e provocazioni cronologiche in un luogo mito dell’archeologia mondiale come Villa Adriana? Come pensi di farlo?
Sono convinto che l’arte contemporanea, quella vera, sia già di per sé una provocazione e stimolo per la nostra intelligenza. I tre siti sono luoghi dell’immaginario occidentale, tre luoghi già di pensiero, per cui accoglieranno progetti cronologicamente crossover e diacronici in maniera del tutto naturale. Storici dell’arte quali Georges Didi-Huberman, Aby Warburg, Hans Belting, Erwin Panofsky, Fritz Saxl rappresentano le matrici da cui si svilupperà il mio lavoro a Tivoli.
– Massimiliano Tonelli e Marco Enrico Giacomelli
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