Biennale di Venezia. The dark side
Non solo intimismo e colore, non solo arte “educata” e accogliente. A Venezia l’estate biennalesca 2017 ha anche i suoi protagonisti scuri, anzi scurissimi. Il suggerimento è di dedicare loro una passeggiata ad hoc, seguendo un percorso che va da Damien Hirst a Anne Imhof, da Carol Rama a Miķelis Fišers, da Roberto Cuoghi a Thomas Braida.
Biennale veneziana 2017. Se vi siete fatti l’idea che la mostra di Christine Macel sia un profluvio di lavori educati e intimisti, dotti ed elegantemente accoglienti, e la cosa non vi attrae più di tanto; oppure, se semplicemente lo avete appurato e vi va di orientarvi su contenuti più scuri, e magari scorretti – come quando dopo il profiterole si ha bisogno di trangugiare rabarbaro –, ecco un’idea di percorso antitetico che può aiutare a bilanciare, o angolare diversamente, il vostro soggiorno veneziano in termini di sollecitazioni sensoriali. Anche perché l’arte contemporanea ce l’ha, un suo côté scuro e maudit, hardcore o finanche horror, in cui operano artisti anche molto importanti (o ritenuti tali). È il “dark side” del cosiddetto white cube, quello votato al cosiddetto perturbante, tendente alla formalizzazione di un sublime di taglio gothic. E sono in tanti a frequentarlo. Io stesso l’ho sempre pensato che la distanza tra Duchamp e Friedrich non è poi così grande. A Venezia il giro da fare è questo qua.
HIRST. FINZIONE E REALTÀ
Si può partire dalla mostra-monstre di Damien Hirst (allestita in doppia sede: Palazzo Grassi e Punta della Dogana), inaugurata un po’ prima dell’ouverture biennalesca, ma visitabile fino a inizio dicembre. Vi porterà via un paio d’ore. Il concept non è altro che quanto dichiarato dal titolo scelto – evocativo solo in apparenza dunque. Vedrete un carico navale di tesori, per lo più scultorei, i quali, inabissatisi molto tempo fa, sono stati di recente recuperati. Solo che ciò è avvenuto, al contempo, per finta e per davvero: per finta, perché i manufatti sono scopertamente attuali, benché appaiano – anche – plausibilmente atemporali; per davvero, perché il loro recupero, come documentano video e foto, è avvenuto concretamente, da vere squadre di sub in scafandro. Lo spettacolo è assicurato. Il problema è che il bilico tra vero e falso, che è il cuore concettuale della mostra, resta vertiginoso solo per poco. Diciamo fino all’apparizione del cartello con la strabiliante frase-calembour (“Somewhere between lies and truth lies the truth”) che scandisce l’avvio della seconda parte. Dopo di che, per un effetto di insistita serialità, mista a gigantismo stucchevole, il sottile equilibrio tra kitsch epico e magia concettuale si sfascia, e diventa prevalente l’impressione di un grand-guignol giocattoloso, che non attecchisce più di tanto. Diventa chiaro che Hirst intende fare il Thorvaldsen heavy-metal, il wagneriano da fantasy adolescenziale. A quel punto la corda si spezza.
LA VINCITRICE ANNE IMHOF
Entrando in Biennale, ingresso Giardini, l’intervento scuro, anzi scurissimo, verso il quale dirigersi è quello di Anne Imhof al Padiglione tedesco. Qui siamo su tonalità hardcore-decadence, visivamente e non solo. La performance, infatti, strutturata come tableau vivant immersivo-architettonico, deve gran parte della sua fascinazione all’accompagnamento sonoro fornito da un tappeto di dilatazioni chitarristiche in stile Sunn O))), paurosamente allarmanti, e da incantevoli sonate di bellezza mortifera. Quanto al resto, siamo su coordinate Vito Acconci meets Abel Ferrara altezza The Addiction. Gli spettatori camminano – letteralmente – su una casa di vetro alta appena un metro – sorta di underworld popolato da giovani che appaiono vampirizzati, sordi zombie dediti ad azioni ipnotizzanti, i quali, ovviamente, risultano insieme più e meno liberi di chi finisce per osservarli avidamente. Sono personaggi molto simili ai ragazzi dediti al solipsismo di gruppo nel film distopico The Lobster; vederli ora nella dimensione anti-narrativa tipica dell’arte visiva non fa che accrescerne la potenza espressiva. Il quadro imbastito è fosco e lirico; semmai il limite sta nell’aver abbracciato in toto un’estetica da tempo degenerata nel fashion. A ogni modo un’operazione abile, che parlando del corpo e alludendo al potere concilia il conturbante con il minimale, e il minimale con il teatrale.
L’INCANTEVOLE CAROL RAMA
Uscendo nuovamente dal recinto della Biennale propriamente detta, si consiglia di raggiungere Palazzo Ca’ Nova, dove è allestita la mostra di Carol Rama, evento cosiddetto “collaterale” da non perdere. C’è da sbrigarsi perché l’esposizione è visitabile solo fino a fine giugno. Sulla grandezza ormai conclamata di questa isolata di genio, di questa magnifica strega, non si scriverà mai abbastanza. Di fatto la mostra è una piccola retrospettiva, che copre un arco temporale impressionante (dagli Anni Trenta agli Ottanta del secolo scorso) senza buchi rilevanti o cadute di tono. L’allestimento, costipato e un po’ old-style, è compensato dallo scintillio qualitativo dei pezzi scelti, e dalla presenza di opere che non venivano esposte da tempo. È la classica mostra in cui si rimane più del tempo previsto. A incantare è la grazia di una visionarietà – per così dire – presocratica, con cui Rama descrive, inseguendole, figure e presenze metafisiche e animali, che vanno a comporre una sinfonia del corpo e dell’eros delicata e amorale, arcaica eppure modernissima. Senso della linea e figurazione sono inconfondibili: anche gli insetti, ritratti da Rama, diventano divinità o compagni. La si può considerare una Egon Schiele più felicemente panica, o una surrealista “naturale”, che non ha bisogno di architettare onirismi. Splendidi e non meno “corporei” i lavori del periodo “astratto”, nei quali occhi di bambole e pattern più filamentosi che geometrizzanti paiono comunque palpitare.
DA MIĶELIS FIŠERS…
Passando all’Arsenale i due artisti da visionare sono Miķelis Fišers (Padiglione Lettonia) e Roberto Cuoghi (Padiglione Italia). Sono vicinissimi, per cui si fa presto.
Miķelis Fišers impressiona. Compone da solo un padiglione delle meraviglie, bizzarro ma secco, utilizzando incisione, pittura e installazione senza che quasi ci si accorga di essere di fronte a opere differenti sul piano mediale. Fa il Bosch minimal e se la cava egregiamente, riuscendo a ritrarre un futuro distopico e spaventoso in modo godibilissimo, fluido. Le sue incisioni su tavola sembrano metope costruite col neon: in esse dinosauri e alieni col testone – come a dire: passato e futuro –, si alleano tra loro per dileggiare e seviziare gli esseri umani. Sono tranche de vie da incubo apocalittico, fresche e incisive, ritratte con sveltezza espressiva in stile Osvaldo Cavandoli. Parte del padiglione è un palco, dove una scena come le altre, ingigantita e tridimensionalizzata, diventa “realtà”. In essa un albero è una belva che brandeggia spade, e gli angeli, che ci sono, fanno, ahinoi, una brutta fine. Tra le due aree, entrambe al buio, si staglia una pitturona che appare sospesa. Raffigura un viscere o un punto imprecisato del cuore: carne e sangue insomma, e nient’altro. Fenomenale l’aver scelto per essa la forma esagonale, che evoca mondi sinistramente sintetici. È un ciondolo allucinatorio che in mezzo a tanta narratività ci sta benissimo; un monito, allusivo ma duro, che è insieme “astratto” e l’opposto dell’astratto. Con un titolo che fa una paura del diavolo: Farewell to selfishness. Chapeau.
… A ROBERTO CUOGHI
Tutt’altro che narrativo è invece l’intervento di Roberto Cuoghi nel Padiglione Italia. Trattasi di opera percorribile, composta da un vasto ambiente in cui sono presenti enigmatici macchinari apparentemente in funzione, e numerose sculture di corpi umani colti – tutti – nella posizione del Cristo crocifisso. Nel corso della fruizione ci si incammina tra calchi di soggetti esanimi, dai quali si riceve uno straniante effetto di ripetizione imperfetta, come se fossero stati prodotti da un tritacarne. Lo spettatore viene così accompagnato nel cuore dell’abissalmente seriale, dove è la presenza aberrante di corpi invece che di oggetti a confonderlo e soggiogarlo. Fa da detonatore il risvolto religioso-culturale, nel senso che la contraddizione sbattuta in faccia è quella per cui da una parte c’è una tecnica asettica, dal volto disumano, mentre dall’altra c’è quello che – per i cristiani almeno – è il più umano dei volti. Per fissare l’opera, renderla più fluida e ridurne il patetismo, Cuoghi ricorre intelligentemente a una sorta di tunnel che sembra di plastica, pop e psichedelico, da dancefloor schocking. Insomma l’impatto c’è, il che non è poco; l’opera ha il tenore della randellata, anche se – va detto – in definitiva è più allusiva e d’atmosfera che concettualmente quadrata. Le allusioni si sprecano: anzitutto, lo spettro dell’eugenetica. Quanto all’atmosfera, il mood horror c’è tutto: è l’installazione ambientale che avrebbe realizzato Hans Ruedi Giger nel caso in cui fosse riuscito a tenere a freno la sua iconofilia.
THOMAS BRAIDA, L’IRRIVERENTE
Tornando verso il cuore della città merita una visita la personale di Thomas Braida, allestita a Palazzo Nani Bernardo, esattamente di fronte a Palazzo Grassi, sponda opposta di Canal Grande. Solo – questo il titolo scelto – è l’assolo di un artista bello scorretto. Lo si deduce già a partire dall’allestimento. Quadri (molti) e sculturine sono infatti collocati tra arredi e preziose tappezzerie, dove si inseriscono con un certo gusto del mimetismo irriverente. Più che un campione del pittorico (la sua pittura non è per niente “pittorica”), Braida è un fenomenale ideatore di visioni, capace di guizzi irresistibilmente epici e/o spiritosi – degno erede di un’impostazione anti-classica, anche italiana, che sale su da Lorenzo Lotto e arriva ad Alberto Savinio. Viene incluso in questo articolo-passeggiata dedicato agli artisti disturbanti, non per il fatto di allarmare o evocare la dimensione del perturbante, ma perché il suo immaginario romantico osa l’inelegante, la tonalità stridula, il sogghigno medievale. È il sardonico che, umanissimo, rincuora – e che è raro vedere così puro, e insieme così al riparo dal cattivo gusto. Va anche segnalato che Braida dimostra di sapersi cimentare nel paesaggistico spinto: gli riescono benissimo distese, brume e orizzonti aperti. Poi, è assai bravo con gli assembramenti. C’è un bruegeliano trionfo della morte che non si dimentica: è grande poco più di un francobollo e sembra dipinto sorvolando la folla con un drone.
– Pericle Guaglianone
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