Questione di superfici. Intervista a Beverly Barkat
Parola all’artista israeliana che, in concomitanza con la 57. Biennale d’Arte di Venezia, sarà protagonista di una mostra dal grande impatto scenico. Allestita in uno degli storici palazzi della città lagunare: il Museo di Palazzo Grimani.
Quanto è importante la relazione fra un intervento artistico, l’ambiente che lo ospita e il pubblico che lo fruisce? Motore e punto di arrivo di tanta pratica creativa contemporanea, questa domanda risuona anche nella poetica di Beverly Barkat (Johannesburg, 1966), autrice di una pittura al confine tra figurazione ed elementi astratti, materia e superficie. È proprio l’idea di strato la base di partenza della mostra che l’artista, abitualmente di stanza a Gerusalemme insieme al marito, il sindaco Nir Barkat, presenterà a Venezia durante le frenetiche giornate di avvio della Biennale diretta da Christine Macel.
Il contesto è il Museo di Palazzo Grimani, metaforico interlocutore della Barkat, impegnata in un dialogo, fisico e visivo, con le architetture e la storia dell’edificio. Una serie di pannelli in pvc, ricoperti su entrambi i lati da strati di pittura colorata e ideati ad hoc per l’occasione, rappresenta il cuore pulsante di un itinerario che si snoda tra le stanze e le opere grafiche, più o meno recenti, dell’artista, innescando una catena di rimandi ai preziosi affreschi di cui il palazzo è custode – uno fra tutti, un nudo di Giorgione.
Il risultato è una conversazione, vivace ma sottile, che coinvolge non solo le opere e l’ambiente, ma anche lo sguardo e i movimenti nello spazio da parte dell’osservatore. Ricomponendo momentaneamente una triade per sua natura mutevole.
Perché ha scelto Venezia, e Palazzo Grimani in particolare, come luogo in cui dare forma alla sua mostra, che nasce da un dialogo profondo tra la sua arte e il contesto ospite?
Gerusalemme e Venezia hanno molto in comune. Entrambe contano su una storia importante, visiva e spirituale, ed entrambe guardano al futuro cercando di integrare la novità nel presente senza mancare di rispetto al passato. Inoltre, entrambe sono caratterizzate da molteplici strati e il mio lavoro verte sul concetto di strato.
Palazzo Grimani si fonda sull’incredibile portato dell’arte e dell’architettura rinascimentali e prende le mosse dal desiderio del Doge di collezionare arte e di lasciare il segno nel mondo dell’arte e nella stessa Venezia. Noi tutti dobbiamo rispettare il passato e tutto ciò che lo riguarda, senza che questo ci impedisca di muovere i nostri passi verso il futuro.
Lei ha ricreato il suo atelier all’interno di Palazzo Grimani come parte della mostra. Quanto è importante la relazione con il pubblico nel suo lavoro?
Il pubblico è importante nel contesto dell’atelier perché lo rende vivo. Ogni persona regala all’opera un valore aggiunto di energia che contribuisce a rafforzarla. Ho anche voluto accogliere gli spettatori nel mio mondo e donare loro qualcosa in più di un dietro le quinte rispetto al mio processo creativo. Tuttavia, la relazione con lo spettatore inizia molto prima del momento in cui c’è un’opera da guardare. Il contesto e il pubblico rappresentano un elemento essenziale per l’energia e il temperamento dell’atto creativo.
Prima di comprendere di cosa tratterà un lavoro ho bisogno di capire chi è la gente che abita quel luogo. Solo allora potrò mettere a punto il concept e realizzare il mio intervento site specific. Tutti questi aspetti concorrono alla creazione di una mia opera.
Ha seguito personalmente l’allestimento della mostra a Palazzo Grimani, realizzando da sé l’installazione site specific nella sala principale. Tutto ciò deriva da un senso di responsabilità nei confronti del suo lavoro e del pubblico?
Essere scelta per lavorare ed esporre a Palazzo Grimani è al contempo un privilegio e una grande responsabilità. Come artista io ho il dovere di rispettare l’edificio e le sue regole. “Ascoltare” il palazzo così come ascoltare lo staff che si occupa del museo. Ogni limitazione conduce alla corretta soluzione, sia per il palazzo sia per l’arte. Non poter fissare i dipinti al muro, camminare sul pavimento o appendere oggetti al soffitto è stata una benedizione sotto mentite spoglie, foriera di interessanti soluzioni che hanno valorizzato il lavoro.
Una volta che l’opera inizia a prendere forma, si innesca una riflessione in merito allo spettatore, il quale aggiunge strati all’opera. Come posso condurre il pubblico in un viaggio che gli regali un’esperienza significativa e che lo avvicini emotivamente e fisicamente all’arte e a sé stesso?
Quale risposta si è data in questa occasione?
Per raggiungere tali obiettivi ho dovuto conoscere a fondo il palazzo, lo staff del museo, il contesto veneziano, il pubblico e il mio stesso lavoro. Mi appassiona l’idea di portare nuove idee e un nuovo pubblico all’interno di questo prezioso palazzo, sempre rispettandone le regole e l’enorme fiducia che è stata riposta in me.
Lei vive a Gerusalemme. Cosa pensa del contesto artistico israeliano?
Gli israeliani sono incredibilmente innovativi e creativi. Israele è un luogo che incoraggia chi pensa e crea “fuori dal coro”. Sono molto orgogliosa di quanto sta accadendo sulla scena artistica israeliana e credo che in futuro molti artisti proverranno da lì.
Progetti futuri?
Inizierò molto presto la ricerca di un’altra straordinaria location cui ispirarmi per realizzare un altro lavoro site specific che tenga in considerazione il luogo – un edificio, una sede storica o qualsiasi altra sede dotati di una forte identità –, entusiasmando le persone che lo abitano o lo hanno abitato e che desiderano vistarlo insieme. Sto seriamente pensando di realizzare la mia prossima mostra in Sud Africa, dove sono nata.
– Arianna Testino
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