Guardare al futuro. Intervista con Ilya ed Emilia Kabakov
La celebre coppia di artisti sta per sbarcare nella Capitale, con la nuova tappa di un progetto inaugurato alla fine degli Anni Settanta. Un invito alla tolleranza che coinvolge le giovani generazioni. L'installazione itinerante sarà ospitata nella piazza dell'Accademia di Belle Arti di Roma.
Il 25 e il 26 maggio, uno fra i progetti più longevi (le cui premesse risalgono alla fine degli Anni Settanta) e istituzionali di Ilya ed Emilia Kabakov (rispettivamente nati nel 1933 a Dnipro e nel 1945 a Dnepropetrovsk) sta per prendere nuova vita in Italia, nella Piazza del Ferro di Cavallo di Via di Ripetta, sede dell’Accademia delle Belle Arti di Roma, che ha coordinato il cantiere e che ospiterà l’opera fino al prossimo 30 giugno. Persino il Coro Voci Bianche prenderà parte a un’esibizione che si terrà giovedì 25 maggio presso il Teatro dell’Ara Pacis di Roma, nell’ambito di The Ship of Tolerance, intervento installativo dedicato al tema della tolleranza e rispetto verso le altre culture e idee, rivolto alle scuole di ogni ordine e grado. Ne abbiamo parlato con Emilia Kabakov.
Potresti descrivere quali caratteristiche sono peculiari del nuovo corso di The Ship of Tolerance a Roma?
Quando abbiamo realizzato per la prima volta The Ship of Tolerance a Siwa, si trattava solamente di uno dei quattro progetti che stavamo presentando. Volevamo diffondere la convivenza fra culture, religioni e tradizioni. Le tappe successive si sono svolte in Paesi e città differenti, espandendo l’idea di tolleranza persone che appartengono a diverse religioni, culture ed etnie.
Cosa vi ha attratto di Roma?
Supportati dai Musei Vaticani, siamo stati attratti dall’idea di presentare The Ship of Tolerance all’interno di un palazzo antico, storicamente connesso al commercio marittimo e che oggi si presenta come un’istituzione artistica.
Avete mai esposto a Roma prima d’ora?
Nel 2003 il Maxxi ci ha dedicato una personale. Nel 2005 abbiamo partecipato, con alcuni nostri lavori, all’inaugurazione del nuovo edificio. Abbiamo preso parte anche a diverse collettive.
Questa è la seconda volta – dopo Venezia nel 2005 – che portate The Ship of Tolerance in Italia. Quali nuovi messaggi trasmetterete? Quali nuovi significati accompagnano l’evoluzione di questo progetto, ancora così attuale?
Il mondo è drammaticamente cambiato. Stiamo entrando in un nuovo paradigma, proprio quando un intero continente sta spostando l’attenzione verso l’Europa e nessuno dei due versanti sa come comportarsi e come trattare con le enormi urgenze create dalle differenze tra popoli che stanno per convivere, ricercando un nuovo ideale di rispetto, di dialogo tra religioni, culture e tradizioni da troppi secoli in contrasto. E questo rappresenterà il nostro futuro per lunghissimo tempo.
Quali strumenti state mettendo in campo?
Stiamo cercando di spiegare ai ragazzi che le persone sono spaventate da quel che non conoscono e che ogni conflitto può essere risolto attraverso una comunicazione che approfondisca la conoscenza dell’altro, attraverso il rispetto dei valori acquisiti nella differenza. Esistono messaggi sottili e diretti che si possono insegnare ai bambini, durante le lezioni di disegno previste da The Ship of Tolerance.
Ad esempio?
Il più importante è che la cultura ha un linguaggio universale e che, se lo vogliamo, possiamo sempre trovare interessi e terreni comuni.
Chi sono i partner che sostengono il progetto?
Abbiamo formidabili partner istituzionali: il Ministero dell’Educazione, il Vicariato di Roma, la Pontificia Università Lateranense. E naturalmente l’Accademia di Belle Arti di Roma, che con la sua squadra ha compiuto un eccellente lavoro: siamo molto soddisfatti e perfettamente consapevoli del notevole sforzo richiesto. Abbiamo inoltre cominciato a lavorare con le scuole e i centri dei rifugiati a Roma e a Zug – cittadina nella quale, nel 2016, l’installazione era stata esposta. Ci auguriamo si crei inclusione anche con l’Istituto Comprensivo Winckelmann e il Borgo Ragazzi di Don Bosco. Il programma di tolleranza si lega strettamente all’urgenza dei rifugiati, ma anche al Maxxi e all’Accademia Francese a Villa Medici, solo per citarne alcuni.
Come si è innescato questo processo?
In un certo senso è stato un miracolo. Ho incontrato Alessandro Leto e, senza nemmeno conoscerlo, ho cominciato a raccontargli del nostro progetto: l’idea era di far apprendere la tolleranza ai bambini, facendo sì che il talento risolvesse i problemi causati dalla violenza, dalla lotta nella prevaricazione di valori che devono essere compresi a fondo, senza creare alcuna gerarchia nella loro trasmissione. Lui ha semplicemente detto: “Fammi pensare a come posso esservi d’aiuto”. E in meno di sette mesi ci siamo messi a lavorare alacremente ai dettagli, alla costruzione, all’opening, al concerto e all’organizzazione della riunione di ragazzi particolarmente dotati che arriveranno a Roma da diverse nazioni. La prossima destinazione sarà Oslo, città che ospita il Premio Nobel e Amnesty International.
A tal proposito, quali nuovi progetti avete presentato all’interno del Parco Christen Sveaas/Kistefos Foundation? Quali lavori esporrete?
Christen è un grande collezionista che, senza voler creare troppa pubblicità attorno a sé, possiede un’impressionante collezione d’arte contemporanea, grazie anche al suo curatore William Flatmo. Ha un occhio eccellente e sa esattamente quale sia il miglior lavoro da sottoporre a Christen. Il 21 maggio abbiamo presentato una nuova scultura, The Ball.
Potresti anticipare qualche particolare sulla vostra prossima retrospettiva alla Tate Modern?
È tutto fissato per ottobre: inaugureremo la nostra prima retrospettiva europea, dal titolo Not Everybody Will be Taken Into The Future. Mi mette un po’ di paura, ogni volta che ci penso, non per la portata o per l’estensione, ma perché è un’istituzione museale che impone una sorta di responsabilità storica. È molto pericoloso per un artista realizzare una retrospettiva essendo ancora vivo. Alcuni avvenimenti possono ispirarti, mentre altri, che devono ancora venire, possono completamente distruggerti. Non si sa mai quale tipologia di responso aspettarsi dal futuro: ci si può trovare improvvisamente a far fronte a un lavoro con un’anima a se stante, una volta inserito nello spazio di un’istituzione importante come la Tate.
Come state lavorando con il team curatoriale?
Lavoriamo a stretto contatto con Juliet Bingham, che curerà la mostra. È una collaborazione davvero speciale, un caso rarissimo di perfetta sintonia.
È emersa una certa nostalgia nel rimettere in atto il passato?
La nostalgia non ha senso di esistere, non per questa mostra. Non quando guardiamo al nostro passato. Noi proveniamo da una società utopica, ben radicata nel Paese in cui siamo nati, un’utopia che abbiamo amato e odiato allo stesso tempo. Come se adesso raccontassimo di Atlantide, una sorta di reperto sul quale qualcuno scriverà in futuro, creando leggende, storie, miti. Ogni giudizio, positivo o negativo, crea sempre una comparazione, ma abbiamo vissuto con uguale forza i momenti belli e quelli pessimi. Quello che davvero ci mancava, a quei tempi, era la libertà. Solo nel momento in cui l’abbiamo capito e abbiamo lasciato il nostro Paese abbiamo provato nostalgia, non prima.
Quali sono i vostri programmi futuri? Parteciperete fra l’altro alla prima edizione della Triennale armena…
Stranamente, l’intero mondo occidentale sta celebrando il centenario della Rivoluzione Russa. Per questo motivo abbiamo molte, diversissime proposte. Ma il nostro lavoro più importante, al quale ci stiamo preparando, sarà per l’Hirshhorn Museum di Washington. Inaugureremo a settembre, poco prima della Tate. Svilupperemo una sorta di segretissimo progetto parallelo tra la Serpentine Gallery e Kensington Park. Quanto alla Triennale in Armenia, esporremo a Yerevan; la mostra sarà diretta da una delle migliori curatrici al mondo, Adelina von Fürstenberg. Ci auguriamo che The Ship of Tolerance, in futuro, continui il proprio viaggio, magari anche in Germania, oppure proprio in Armenia.
– Ginevra Bria
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