Un belga a Venezia. Intervista a Jan Fabre
L’artista originario di Anversa torna nella città lagunare con una mostra raccolta, che si snoda tra gli ambienti dell’Abbazia di San Gregorio. Una riflessione sulla natura metamorfica dell’esistenza, esplicitata attraverso due materie prime accomunate dalla fragilità.
Presentata in anticipo sui giorni convulsi della Biennale, la mostra Glass and Bone Sculptures 1977-2017 porta nuovamente Jan Fabre (Anversa, 1958) a Venezia, offrendo una panoramica sui lavori realizzati fra gli Anni Settanta e l’epoca odierna attraverso due materiali fragili e tenaci: il vetro e le ossa. Organicità e decomposizione, vita e morte, energia e declino si mescolano nelle opere di Fabre, tracciando un fil rouge indelebile che solca la carriera dell’artista. Dagli esordi alle critiche animaliste, dal senso di appartenenza al Belgio fino a una critica bonaria verso l’amico Damien Hirst, ecco che cosa ci ha raccontato.
Cominciamo dalla mostra di cui è attualmente protagonista qui a Venezia.
La mostra è stata pianificata tre anni fa con Giacinto Di Pietrantonio e Berengo, il maestro vetraio insieme a cui lavoro da dieci anni e che mi ha fatto visita ad Anversa un paio di volte, venendo così a conoscenza del mio impiego del vetro fin dagli Anni Settanta e Ottanta. Decidemmo quindi di realizzare una mostra basata sul vetro e le ossa. La location è stata individuata da Giacinto ed Edoardo Cimadori e ritenuta ottima perché un tempo era un monastero di monaci e la figura del monaco compare nella mia opera in relazione alle ossa. Per tali ragioni abbiamo unito due diversi aspetti del mio lavoro.
Come diceva, non è una novità per lei l’utilizzo del vetro.
Il primo lavoro realizzato con vetro e ossa risale al 1977, The Pacifier, una sorta di metafora di come io intendo l’arte e la bellezza. Sono femminilità e mascolinità insieme: racchiudono la morbidezza e la componente rassicurante della femminilità, ma anche una mascolinità capace di ferire. Proprio come l’arte e la bellezza, che devono rassicurare e al contempo ferire, così da mettere il pubblico nelle condizioni di pensare e sentire in maniere differenti.
Non è neppure la sua prima volta a Venezia…
No, la prima volta fu nel 1984, quando esposi il mio lavoro alla Biennale nell’ambito del Padiglione belga e nella selezione internazionale con Germano Celant e Franco Quadri [la Biennale d’Arte era diretta da Maurizio Calvesi, mentre Quadri dirigeva il settore Teatro, N.d.R.]. Il mio lavoro teatrale The Power of Theatrical Madness fu interamente creato a Venezia. Avevo ventitré anni.
Ricordo ancora Pietas, l’intervento che lei realizzò alla Scuola Grande della Misericordia, sempre qui a Venezia, nel 2011. Le profonde sensazioni generate dal suo dialogo con lo spazio e dal modo in cui lei utilizzò la materia si rivivono anche in questa mostra, legata ulteriormente a Venezia dall’uso del vetro.
C’è anche una fortissima connessione tra il contesto fiammingo e quello italiano e veneziano, in particolare. Una mia opere allude al Carnevale e alla celebrazione della carne. I cani presenti in questa installazione [The Catacombs of the Dead Street Dogs, N. d. R.] sono stati ritrovati nei dintorni di Anversa, perché molte persone in Belgio, Olanda e Francia acquistano cani e poi li abbandonano per strada durante l’estate e così vengono uccisi. È un danno agli animali, così come un danno agli artisti, perché noi siamo simili ai cani di strada.
Lei ha lavorato non solo a Venezia, ma anche a Firenze. In entrambi i casi si tratta di città ricche di storia. C’è una ragione per cui sceglie contesti urbani altamente storicizzati?
Sì, perché io sono un artista davvero belga e davvero europeo. Il mio amico e collega Damien Hirst, in mostra a poca distanza da qui, evoca tutta la potenza dell’impero britannico. Il Belgio, invece, è sempre stato occupato, dai francesi, dagli olandesi, dagli spagnoli, dai tedeschi. Noi non dominiamo il mondo come gli inglesi, quindi la nostra tradizione è maggiormente legata alle arti visive e, pur rimanendo sotto la linea dei radar, mantiene una carica sovversiva e ironica. Io credo di agire in questo solco.
Dunque ha visto la mostra di Damien Hirst?
Sì, ero all’opening. Damien è un amico.
E cosa ne pensa?
Credo che le sculture siano davvero belle, mi è piaciuta l’idea, ma è troppo “British Empire”.
Prima lei ha nominato gli animali come parte integrante di una sua opera. Come vive le proteste animaliste nei confronti dei suo lavoro?
Credo siano stupide perché totalmente radicali! Come è accaduto a Firenze, dove gli animalisti hanno rivolto contro di me le peggiori accuse. Mi domando in che modo possano crescere i loro figli, dato il tono delle parole che hanno usato attraverso i media. E poi erano solo in venti a protestare. Io sono un grande amante degli animali e il mio lavoro è incentrato sulla difesa della vulnerabilità di animali ed esseri umani. Queste persone sono così radicali da non voler più ascoltare. Anche a San Pietroburgo, dove ho appena concluso una grande mostra, ci sono state numerose proteste animaliste che, allo stesso tempo, hanno mantenuto alta l’attenzione dei media sulla mostra, visitata da oltre un milione di persone. Questi individui che protestano non vogliono instaurare un dialogo con me.
Dunque non le hanno mai proposto di incontrarli?
No. Si limitano a dire cose terribili sul mio conto. Ho proposto loro di incontrarci diverse volte, ma loro mi definiscono un artista pervertito e sostengono che dovrei andare in prigione o in un ospedale psichiatrico.
Quali sono i suoi progetti futuri?
Sarò a Napoli, con una mostra personale allo Studio Trisorio dal 28 giugno, dove esporrò due film e delle sculture legate al cervello umano. E presenterò al Napoli Teatro Festival un nuovo lavoro, intitolato Belgian Rules: un omaggio al mio Paese in un momento in cui l’estrema destra nazionalista cerca di spaccarlo.
– Arianna Testino
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