Biennale di Venezia. Pittura Analitica, oggi
La Biennale di Venezia diretta da Christine Macel invita a esporre due maestri storici della Pittura Analitica, consacrando così la rinascita di un movimento che avrebbe potuto aspirare a diventare il terzo polo dell’arte italiana insieme ad Arte Povera e Transavanguardia. Malgrado il portamento distaccato dalle alterne vicende delle cose mondane, la Pittura Analitica ha attraversato circa mezzo secolo, esponendo in Italia e all’estero, in Biennali e Documenta, per contrarsi poi negli Anni Ottanta e Novanta e tornare in auge negli Anni Zero.
Le radici sono robuste e ben piantate nel cuore della modernità. Seguendo idealmente il solco tracciato da un padre nobile come Cézanne, uno zio ostinato come Georges Seurat e un cugino eccentrico e irresistibile come Pablo Picasso (quello del Cubismo Analitico), la Pittura Analitica poteva mirare a crescere alta e rigogliosa. E così ha fatto. Fenomeno internazionale che (in)sorge come reazione al dettato freddo del Minimalismo, agli eccessi espressivi dell’informale e al razionalismo cartesiano dell’astrazione geometrica, la Pittura Analitica assume in Italia connotazioni proprie, grazie alle quali oggi appare molto contemporanea, come dimostrano anche gli inviti alla Biennale di Giorgio Griffa (Torino, 1936) e Riccardo Guarneri (Firenze, 1933).
Inviti che assumono il senso di una consacrazione di un modo di far pittura più caldo rispetto al rigorismo degli analitici americani, Robert Ryman (Nashville, 1930) in testa: il padre da uccidere, freudianamente parlando, per diventare adulti. Così la Pittura Analitica sviluppa un modo di fare pittura consapevole, colto ma non concettuale, legato alla tradizione ma non accademico, sperimentale ma non anarchico, artigianale ma preciso ed elegante; un dipingere con misura che significa misurare (e misurarsi con) lo spazio offerto dal quadro-oggetto e dosare metodicamente il tempo del fare pittura.
ORIGINI INDEFINITE
Sembra ormai avviata verso un radioso futuro. Messa da parte la questione del “naming”, escluse le alternative come Pittura Pittura, Pittura Aniconica, Astrazione Analitica o Pittura Pura, i suoi rappresentanti, molti dei quali ottuagenari ma molto attivi, hanno la possibilità di iniziare a pensarsi come un vero gruppo. Il fatto di non essersi configurato come tale, come un gruppo compatto e armato teoricamente da un critico vate (Filiberto Menna è mancato troppo presto), ha indebolito l’identità di quello che avrebbe potuto essere il terzo polo dell’arte italiana del secondo Novecento insieme all’Arte Povera e alla Transavanguardia, se si esclude comunque un altro fortunatissimo player come il Movimento Spazialista.
È il 1967 e sulle pagine di Flash Art appare un articolo dal titolo Appunti per una guerriglia. Lo firma Germano Celant, che avvia così il movimento dell’Arte Povera. Non così chiara appare invece la nascita della Pittura Analitica. Nel 1966 a New York il Guggenheim presenta Systemic Painting, mostra curata da Lawrence Alloway che vede tra i ventotto artisti anche Ryman, attivo fin dagli Anni Cinquanta con la sua pittura bianca su quadrati che lui definisce “realista”, ovvero fatta per registrare concretamente il comportamento dei materiali utilizzati. Il 1968 avrebbe segnato un’epoca in ogni ambito del sapere e del vivere associato. Una nuova ideologia comunitarista e onnipervasiva (il privato è politico) spinge la cultura visiva verso una nuova maturazione concettuale di neoavanguardie che considerano la pittura morta e il fare pittura una poco apprezzabile attività borghese.
Malgrado ciò, la Pittura Analitica appare con i primi protagonisti in mostre a geometria variabile, in cui i nomi di oggi appaiono coniugati diversamente a seconda di momenti e zone geografiche, includendo artisti europei e venendo inclusi anche in mostre estere, specie in Germania, Paesi del Nord, Francia e Inghilterra. Tra le mostre più significative ci sono Analytische Malerei curata da Klaus Honnef e Catherine Millet nel 1975, dove per la prima volta appare il termine Pittura Analitica.
LA PITTURA OSCURATA
La crisi dei grandi racconti però è iniziata e nel 1979 Jean-François Lyotard scriverà La condizione postmoderna per mostrarci la fine delle ideologie. Gli analitici conoscono un lustro di fama internazionale, mettono a segno partecipazioni alla Documenta 6 nel 1977 e in diverse Biennali di Venezia, a partire da quella del 1978 (Guarneri anticipa tutti partecipando a quella del 1966). Forse anche per via del clima politico e sociale, fatto di subbugli e disillusioni, terrorismi ed eversioni, una pittura così poco urlata e disimpegnata politicamente stenta a prendere piede tra il grande pubblico. La debolezza commerciale, sommata all’individualismo di una pittura impegnata in ricerche molto personali, rende la Pittura Analitica un vaso di coccio tra vasi di ferro. Il suo lento procedere e l’ascetismo dimostrato dal pittore, che nel chiuso del suo studio e con pochi mezzi si dedica anima e pensiero alla creazione di oggetti che non voglio dire che se stessi, non possono essere apprezzati da un mondo che, dopo aver sfiorato nuove tragedie, piomba nell’era del riflusso del nuovo boom economico-finanziario, che vede il sorgere del neo-pop e che traduce il ritorno alla pittura nel dettato di una nuova ideologia estetica: la Transavanguardia.
Una pittura che indica se stessa come oggetto della propria indagine, e che fa un’arte tautologica, lontana da ogni impegno sociale, politico o anche solo biografico, rappresenta una proposta che non può avere attrattiva in tempi di rinascita dei nuovi realismi. L’arte assoluta degli analitici (nel senso etimologico di absolutus, ovvero libera da limitazioni o condizioni) è un’arte di estrema libertà rispetto ai laccioli imposti ad essa da parte dei nuovi discorsi extra-pittorici. Ma quella che fu la debolezza di ieri potrebbe essere la forza di oggi, in un mondo molto diverso.
QUALE SENSO DARE OGGI ALLA PITTURA ANALITICA?
Al di là delle questioni storiche, occorre riflettere su quali possano essere i motivi fondanti del nuovo apprezzamento di una proposta artistica così esile e ostinata al tempo stesso. Nell’epoca della digitalizzazione, l’istanza portata avanti dalla Pittura Analitica assume un ruolo di resistenza e di resilienza rispetto a un mondo che scivola verso la dematerializzazione. Il fare pittura in modo artigianale, lento, misurato, organizzato, antispettacolare eppure di eccellenza, di conoscenza e di sapere dei materiali, rende la pittura degli analitici capace di tornare oggi alla ribalta e di affermarsi come testimonianza di una civiltà del fare manuale, il cui declino si sta presentando sotto forma di una spettacolare informatizzazione, ingegnerizzazione, robotizzazione e intellettualizzazione del mondo. La civiltà dell’homo faber, di colui che trasforma il mondo attraverso l’uso del proprio ingegno manuale (le macchine dell’ultima rivoluzione industriale analogica sono ancora “umanistiche”) sta lasciando il posto a una nuova era: la civiltà delle macchine, una futura e decisiva trasformazione del mondo.
In questo contesto, molto diverso da quello degli Anni Settanta, la Pittura Analitica si pone con tutta la grazia, la delicatezza e la fragilità di una ricerca sul linguaggio, sul corpo fisico del quadro, sulla pittura analizzata nel suo stadio prenatale, ovvero in quei suoi elementi che ne forniscono il lessico grezzo; una ricerca sui cromosomi di un Dna che da mezzo secolo gli analitici cercano di riassemblare con metodo.
LA RIVOLUZIONE SIAMO NOI
Già al loro primo apparire, gli analitici non intendono ridefinire il concetto di arte. A loro interessa la pittura come campo d’indagine che basta a se stessa e che non può considerarsi morta nel momento in cui proprio l’apparizione dell’arte concettuale, della performance e di nuovi media la chiamano a un rinnovamento che faccia i conti con la propria condizione di possibilità. Tornare all’origine del fare pittura significa rinnovarne il senso e giustificarne l’esistenza in un mondo nel quale le forze a essa contrarie sembrano avere la meglio. Ecco perché Pino Pinelli può parlare, già allora, di uno “stato ansioso della pittura”, teso a “far venir fuori lo spazio della pittura”.
L’oggetto quadro diventa dunque un campo di forze capace di catalizzare ogni materia, trasfigurandola in un elemento estetico dal portato rivoluzionario. Tanto più rivoluzionario quanto più va alle radici di un fare pittura mai analizzato come tale. La ricerca dei materiali con cui dipingere e su cui dipingere traduce questa delicata lotta “corpo a corpo” con la pittura. I cartoni, i fogli di acetato, la flanella, le pietre, i cementi, le bende, i mediodensit, la carta giapponese, la pittura industriale, l’asbesto, le polveri e i pastelli magri costituiscono la strumentazione per la ricerca in pittura di nuove “sonorità”. La grana, la tessitura o la pennellata articolano la luce e i colori in ritmi e armonie sempre nuove e diverse da artista ad artista. Il campo d’azione è lo spazio finito di un supporto che rimanda solo più a se stesso ed entro cui il nuovo fare pittorico deve mostrare il suo stesso dire.
La poesia ermetica e sperimentale potrebbe essere la corrispondente letteraria della Pittura Analitica, laddove la parola si mette alla prova e cerca di raggiungere l’assoluto di un dire che mira al fondamento dell’essere e del linguaggio stesso e, al tempo stesso, della sua possibilità di accedere attraverso la sensibilità a un sentimento profondo del nostro esserci. Un esser-ci, qui e ora: noi davanti alla tela e la tela davanti a noi. Una tela che, come scrive – a proposito del dipinto Grande Jatte di Seurat – Filiberto Menna nel suo libro capitale La linea analitica dell’arte moderna (1975), sa “far valere i diritti della pittura, della lingua della pittura come sistema autonomo di segni”.
CHRISTINE MACEL OMAGGIA LA PITTURA ANALITICA. L’INTERVISTA
L’annuncio dell’invito rivolto a Giorgio Griffa e Riccardo Guarneri da parte della direttrice della Biennale di Venezia 2017 ha assunto un senso profondo per l’arte italiana. I due pittori sono infatti considerati tra i rappresentanti della Pittura Analitica, movimento che in Italia è sempre stato ai margini e che ora gode di una particolare attenzione da parte di nuovi critici e gallerie. Proprio a Christine Macel abbiamo chiesto un commento su questa scelta.
Che ruolo hanno Guarneri e Griffa nella sua mostra?
Riccardo Guarneri era già un pittore nei primi Anni Sessanta e aveva anche esposto alla Biennale di Venezia nel 1966, senza essere definito pittore analitico: è stato incluso in questo movimento più tardi, ma lui si ritiene un pittore astratto con una dimensione lirica. Griffa è più giovane ed è emerso un po’ più tardi. A mio parere i lavori dei due artisti sono molto diversi tra loro. Non li ho invitati in quanto rappresentanti della Pittura Analitica, ma per via delle qualità specifiche che i loro lavori dimostrano verso l’uso del colore: compaiono, infatti, nel capitolo della mostra chiamato Padiglione dei colori. Griffa poi è molto più filosofico e speculativo nel suo approccio all’arte, i suoi testi sono parte del lavoro.
Cosa li accomuna secondo lei?
Ho trovato molto interessante il loro amore per la musica e per il ritmo, soprattutto nel lavoro di Guarneri, che è un chitarrista e un fan del jazz. Griffa ascolta molta musica classica nel suo studio, dove ho avvertito distintamente un rapporto intenso tra colore, ritmo e un certo tipo di ricerca spirituale impegnata tra filosofia e scienza. E comunque abbiamo discusso di astrofisica.
Quando e in che modo ha fatto la conoscenza del lavoro di Giorgio Griffa, che ha goduto di recenti importanti mostre a Ginevra e a Roma? Cosa gli ha chiesto di esporre?
Conosco il suo lavoro da lungo tempo, mi è sempre piaciuto e sono rimasta sorpresa nel vedere come non abbia più esposto alla Biennale dagli Anni Settanta. È un po’ come per i pittori di Supports/Surfaces in Francia: oggi vengono riconsiderati con interesse da una generazione più giovane di pittori e storici dell’arte.
Anche la storia dell’arte è fatta di corsi e ricorsi…
È il suo aspetto positivo, non è mai definitiva e ripensa costantemente il passato. Come storico dell’arte – lavoro al Centre Pompidou da diciassette anni ormai – ho avuto la possibilità di approfondire la mia conoscenza della storia dell’arte del dopoguerra e devo dire che ci sono ancora molti movimenti europei da riconsiderare ed esporre in modo più ampio. Prendiamo, ad esempio, il Movimento Arte Nucleare: non credo sia molto conosciuto fuori dall’Italia e dalla cerchia degli specialisti dell’arte. Tornando a Griffa, gli ho chiesto di realizzare tre nuovi dipinti per la Biennale e ne sono soddisfatta.
Riccardo Guarneri è un artista meno noto di Griffa, ma ho letto che lei si è innamorata del suo lavoro quando lo ha visto dal vivo.
Conoscevo il suo lavoro dai libri, poi ho visitato la sua mostra alla Rosai Ugolini Modern di New York, una galleria nel Lower East Side. Sono rimasta sorpresa nel vedere che stava portando avanti lo stesso tipo di lavoro, persistendo nella sua ricerca, così ho deciso di fargli visita a Firenze, dove ho visto molte sue opere di epoche diverse, tra dipinti e opere su carta, che ho trovato davvero interessanti.
Quali sensazioni o idee l’hanno convinta che fosse l’ospite giusto per la sua Biennale e su quali dei suoi lavori punterà l’attenzione?
Ciò che mi interessa di Guarneri non riguarda soltanto il colore ma anche la luce. Caratteristica del suo lavoro è quella trasparenza molto speciale, un dialogo tra apparizione e scomparsa che dipende fortemente anche dalla luce dello spazio espositivo. Gli ho chiesto di produrre nuove opere perché desidero mostrare ciò che sta creando adesso, evitando un allestimento storico.
– Nicola Davide Angerame
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #37
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