Quanto c’entra la pittura con la politica? Conversazione con Mark Bradford

Abbiamo incontrato Mark Bradford all’Accademia di Belle Arti di Roma. E abbiamo discusso di arte e politica. In lui una grande spinta utopica, tra azione civile e sentimento, e una passione vibrante per il suo lavoro. Con un monito per gli studenti (e non solo): occuparsi più di politica e studiare la storia. Tutto vive nella storia ed è alla storia che bisogna puntare, a colpi di sogni e rivendicazioni. Chiunque può prendersi il suo spazio. E provare a cambiare le cose.

Il disegnatore è qualcuno […] che vede venire, che pre-disegna, che lavora al tratto, che calcola, etc., ma il momento in cui traccia, il momento in cui il disegno inventa, in cui si inventa, è un momento in cui il disegnatore è in qualche modo cieco, in cui non vede, non vede venire – è sorpreso dal tratto stesso che egli solca, dal solco del tratto, è cieco. È un grande veggente, se non addirittura un visionario che in quanto disegna, se il suo disegno fa evento, è cieco”.

Ovunque vi sia tracciato di differenza, e questo vale anche per il tratto di scrittura, il tratto musicale, ovunque vi sia tratto in quanto sottratto o ritratto rispetto alla visibilità, qualcosa resiste alla pubblicità politica, al phainestai dello spazio pubblico […] “Qualcosa” che resiste da sé senza che si debba organizzare una resistenza con dei partiti politici. Ciò resiste alla politicizzazione ma, come ogni resistenza a una politicizzazione, è anche naturalmente una forza di ripoliticizzazione, uno spostamento del politico”.

Jacques Derrida
, Pensare al non vedere, 2002

La superficie dei segni dipinti, lo sdoppiamento del teatro, il ritmo del coro danzante: siamo alle prese con tre forme di partizione del sensibile che strutturano il modo in cui le arti possono essere percepite e pensate in quanto arti e in quanto forme di iscrizione del senso della comunità. Tali forme definiscono il modo in cui delle opere o delle performance ‘fanno politica’, a prescindere dalle intenzioni che le hanno animate, dalle modalità di inserimento sociale degli artisti o dal modo con cui le forme artistiche riflettono strutture o movimenti sociali”.

Jacques Ranciére, La partizione del sensibile, 2000

L’arte ha a che fare con la politica, sul piano estetico e filosofico? E la pittura? Tema immenso. Intorno a cui certi autori hanno partorito riflessioni folgoranti. Teorie che s’incarnano nella segretezza luminosa dell’opera, nella sua sintassi, nella sua presenza e nel suo ritrarsi. In quello che ogni opera è, non è, sarà, è sul punto di diventare. E allora, quanto può essere rivoluzionario l’atto del disegnare, dello scrivere, del dipingere, del comporre, del costruire un’azione in seno allo spazio pubblico? Una ginnastica umana e intellettuale, volta a scardinare i perimetri noti. Con la possibilità di un nuovo segno, di una nuova partizione, di una epifania e ri-creazione, di una resistenza al tutto-visibile, al tutto-afferrabile, al pre-visto e al sempre presente. Traiettorie da visionari.

Mark Bradford portrait. Courtesy of the artist

Mark Bradford portrait. Courtesy of the artist

MARK BRADFORD. L’ESPERIENZA DI UN PITTORE-ATTIVISTA

Un artista che oggi vive su di sé la questione della risonanza civile e concettuale tra politica e arte, e più specificamente tra politica e pittura, è Mark Bradford. Statunitense, afroamericano, spesso attivo con progetti sociali e umanitari, interessato alle battaglie in favore degli ultimi, di chi sta ai margini, di chi non vede rispettati i suoi diritti.
Lo abbiamo incontrato lo scorso giugno a Roma, per una conferenza all’Accademia di Belle Arti. Bradford è una star. Uno tra gli artisti della sua generazione più pagati e corteggiati del momento. È lui a rappresentare, quest’anno, il Padiglione USA alla Biennale di Venezia. Ed è lui a far impazzire collezionisti e musei di tutto il mondo. Un ragazzone di cinquant’anni che ne dimostra quindici di meno, un artista raffinato con l’aspetto di un giocatore di basket in sneaker e t-shirt. Un uomo dai modi gentili, genuini. Con quel surplus di generosità che quasi trabocca dallo sguardo, dai gesti. Tutta l’empatia generata dalla sua pittura calda, materica, ritorna incredibilmente nella sua persona. E nelle sue parole.
Per dirla ancora con Rancière: “Ciò che caratterizza una forma di dissenso politico è sempre, nello stesso tempo, una maniera di costruire qualcosa come un mondo possibile, condivisibile”. Ri-fare mondi. Un po’ come per l’arte, inclusa la pittura. E per la storia di un ragazzo afroamericano, di estrazione popolare, che tra forme astratte e intrecci di colore ha conquistato il suo spazio lungo i sentieri di un art system rigido, non inclusivo. E da lì, oggi, porta avanti le sue battaglie: estetiche, politiche, civili.

Mark Bradford, Tomorrow Is Another Day, La Biennale di Venezia, U.S. Pavilion, 2017. Photo Joshua White, Courtesy the artist and Hauser & Wirth

Mark Bradford, Tomorrow Is Another Day, La Biennale di Venezia, U.S. Pavilion, 2017. Photo Joshua White, Courtesy the artist and Hauser & Wirth

L’INTERVISTA

Del tuo lavoro mi affascina questa connessione tra pittura astratta e politica. Siamo abituati a ritrovare la politica nell’arte relazionale, in quella concettuale e performativa; ad esempio c’è una lunga tradizione legata al corpo come spazio di riappropriazione identitaria. La pittura, invece, nella sua declinazione aniconica, nella sua distanza rispetto al fragore dell’azione, sembra lontana da tutto questo. Io sono tra coloro che riconoscono in tutta la grande arte – pittura inclusa – una valenza politica, a prescindere da temi, iconografie, ideologie. In fondo parliamo di spazi del sensibile, di ciò che interpreta processi comuni e comunitari, di ciò che riguarda i corpi e i pensieri, dell’invisibile che può diventare visibile. Cose che valgono in arte, come in politica. Come la vedi tu?
Mi piace molto sentire parlare in questi termini di pittura. È vero, sì, la pittura spesso viene vista come il ‘bambino cattivo’ del mondo dell’arte. Però, se andiamo ad analizzarla, ci accorgiamo che la storia della pittura è stata scritta dagli uomini. E poiché io sono cittadino americano, parlo di uomini bianchi. Poche donne, poche persone di colore, poche persone da altre parti del mondo vi avevano accesso. Era un mondo essenzialmente chiuso. E quindi ho trovato molto interessante l’idea di riuscire ad aprire questo mondo: utilizzando materiali diversi, punti di vista diversi, ceti diversi, classi diverse, geografie diverse. Se la pittura ha a che fare con il potere, allora dobbiamo chiederci: chi ha il permesso di sedersi intorno a questo tavolo? Io, come afroamericano, non ho fatto parte di questa storia. Quindi diventare un artista, per me, è stato esattamente un gesto politico.

Un fatto di rivendicazione. Di ricollocazione. A tal proposito, non posso non chiederti come leggi il contesto politico attuale negli States. La reazione del mondo dell’arte e dello spettacolo all’elezione di Donald Trump è stata di un rifiuto unanime. Un’esagerazione? O qualcosa di indispensabile?
È una reazione che dà speranza. Devi capire che io sono un afroamericano e questo è un Paese che ha avuto una storia ricca di contenziosi, di problemi con le minoranze. Noi abbiamo dovuto lottare per i nostri diritti civili. Devo dunque ammettere che gli ostacoli c’erano prima del novembre 2016, prima di Trump. Non sono nulla di nuovo effettivamente. È una condizione. Essere un attivista, dire la propria verità, protestare: è questo che gli afroamericani fanno da sempre.

Mark Bradford, Tomorrow Is Another Day, La Biennale di Venezia, U.S. Pavilion, 2017. Photo Joshua White, Courtesy the artist and Hauser & Wirth

Mark Bradford, Tomorrow Is Another Day, La Biennale di Venezia, U.S. Pavilion, 2017. Photo Joshua White, Courtesy the artist and Hauser & Wirth

Ma con Obama possiamo dire che stava andando meglio? O anche tu ti collochi, come nel caso di Shepard Fairey, tra gli ex sostenitori delusi?
Nessun governo è perfetto. Non stiamo parlando di perfezione, ma di inclusione. E ovviamente con questo governo, che è molto più conservatore, sarà difficile affermare idee che riguardano l’inclusione, il progressismo, i diritti delle donne, i diritti di genere, i diritti dai gay. Non per questo ritengo che Obama fosse perfetto. Devo però dire che negli ultimi tempi, nel Nord America, avevamo cominciato a intavolare un tipo di conversazione che riguarda l’essere nordamericani, non parlando più banalmente di americani di colore, di estrazione ispanica o di origine asiatica. Mentre in Italia voi dite semplicemente “siamo italiani”, negli Stati Uniti specificavamo sempre la razza prima dell’aggettivo “americano”. A meno che non ci si trovi in guerra: tra i militari si parla sempre di identità nazionale, senza distinzioni razziali.
Adesso abbiamo finalmente avviato un dibattito sull’identità nazionale, ed è qualcosa di molto sano. Fuori dagli USA il mondo mi vede semplicemente come un nordamericano: è per questo che sono venuto a vivere in Europa per diversi anni. Ho notato spesso che i giornalisti, qui o in altre parti d’Europa, mi chiedono com’è per me vivere in Nord America, non mi chiedono come è per me vivere in Nord America da persona di colore: questo è veramente molto nuovo per me.
La stessa cosa nell’arte: abbiamo sempre bisogno di definire la “scultrice donna”, la “pittrice donna”, quando sarebbe bello arrivare a un punto in cui non è più necessario dire “è una mostra di donne”. È una mostra di scultura o pittura, punto. Non siamo ancora arrivati a questo. E allora ecco che il mezzo, la forma d’arte utilizzata, diventano occasione politica.

Mark Bradford, Oracle (detail), 2017. Photo Joshua White, Courtesy the artist and Hauser & Wirth

Mark Bradford, Oracle (detail), 2017. Photo Joshua White, Courtesy the artist and Hauser & Wirth

Dunque, in definitiva, possiamo affermare che l’arte, la pittura, arrivano a modificare la nostra idea del mondo e dunque le nostre forme sociali, culturali? Penso ad artisti che hanno scritto testi rivoluzionari, con una forte valenza politica. Uno su tutti, Malevic…
Sì, Malevic! È un artista che ha avuto una grande influenza su di me. I suoi scritti politici sono veramente straordinari.  E la cosa è incredibilmente visibile, ad esempio, nel momento in cui ha cambiato stile pittorico. Gli artisti si sono sempre impegnati in politica, ma in certi casi il contesto, la situazione dell’epoca, diventano veramente importanti per decifrare senso e valore del lavoro: è così che riesci a capire Malevic, solo interpretando il contesto politico, sociale, economico che lo ha portato a trasformare la sua pittura. Ed è questo il problema di chi studia storia dell’arte senza l’ausilio della sociologia, delle scienze politiche: gli mancherà una parte fondamentale.

E mancherà anche la consapevolezza della spinta potenziale che l’arte può avere rispetto alla storia…
Assolutamente.  In genere, quando sono interessato a un particolare artista, la prima cosa che vado a guardare è la storia, il luogo in cui ha vissuto, la condizione delle donne e delle minoranze… Contestualizzare, prima di tutto. Vedi gli Impressionisti, il loro rapporto con la fotografia, il sorgere della modernità… Se osservi le opere, senza capire quel che c’è intorno, pensi: “beh, è un bel quadro, potrebbe stare bene a casa di mia nonna!”. E ti sfugge tutto il resto.
Io ho frequentato una scuola con un taglio molto concettuale, e sebbene abbiamo studiato diversi artisti di riferimento, sono dovuto tornare a leggermi Greenberg, ho dovuto riprendere daccapo Klimt… Per poter capire davvero. Prendiamo l’astrattismo degli Anni Cinqanta ad esempio Pollock: all’epoca tutti volevano presentarlo al mondo dicendo “qui non c’è nulla di politico”. Invece, pensando agli Stati Uniti di allora, pensi a J.F. Kennedy, alle lotte per i diritti civili, a Martin Luther King, a quanto le donne subissero ostacoli e pregiudizi… In quel momento era importante che le donne, e tutte le persone escluse dalla storia, esigessero di esservi incluse. Tutto questo ha a che fare anche con l’arte generata in quel contesto.

A Venezia, accanto ai dipinti e le installazioni del Padiglione USA ai Giardini, hai presentato un progetto, Process Collettivo, realizzato con Rio Terà dei Pensieri, una cooperativa che si occupa di inserimento lavorativo per i detenuti: arte sì, ma stavolta in forma di puro impegno politico-sociale. Ce ne parli?
È stato straordinario. Prima di tutto la cooperativa è di Venezia ed è lì da vent’anni. Volevo essere discreto, non erano le persone a far parte del mio progetto: io non amo quei progetti in cui vengono puntati i riflettori per 2-3 mesi su una comunità, con i suoi bisogni particolari, e poi la cosa finisce lì. Per me tutto ha a che fare con la sostenibilità, l’organizzazione dev’essere sostenibile. Ed è per questo che ho intrapreso una collaborazione di 6 anni con la cooperativa. Quello che devi fare, semplicemente, è metterti in ascolto; e poi stanziare fondi, senza condizioni. Loro volevano un negozio, perché volevano avere un volto pubblico: era questo che contava. Volevano più fondi per il programma che stavano seguendo, che altrimenti sarebbe giunto al termine. E volevano attenzione.

Mark Bradford Process Collettivo Venezia interior view. Photo Joshua White Courtesy the artist and Hauser Wirth Quanto c’entra la pittura con la politica? Conversazione con Mark Bradford

Mark Bradford, Process Collettivo, Venezia, interior view. Photo Joshua White, Courtesy the artist and Hauser & Wirth

Grazie al negozio i detenuti vendono i prodotti realizzati da loro, a mano, con materiali di riciclo. Qual è stata la reazione della comunità locale? Cosa siete riusciti a muovere?
Per un anno sono andato lì ogni mese, a lavorare con donne e uomini detenuti, a lavorare sul progetto del negozio: volevo dimostrare loro che facevo sul serio. Queste persone vivono in carcere, hanno necessità enormi e la riabilitazione è molto complessa. La società stanzia fondi per i bambini, per i rifugiati… ma il carcere è come una macchia. Il direttore del penitenziario mi raccontava che in tanti gli dicevano: “No, non voglio darti fondi, perché magari questa gente è la stessa che mi ha rubato il computer”. Ecco, loro volevano cambiare le cose a livello della percezione. Ed è su questo che abbiamo lavorato.
Quando ha aperto il negozio – dove hanno scelto tutto loro: lo spazio, gli arredi, l’architetto… – penso sia venuta tutta Venezia. C’erano tantissime persone ed erano tutte del posto. Non ho voluto inaugurarlo nei giorni dell’opening della Biennale, ma un mese prima: quello era il loro progetto, non era destinato ai turisti dell’arte. Ed è successa una cosa interessante. Il direttore del carcere e il Comune hanno concesso dei permessi ai detenuti con cui ho collaborato, per assistere all’apertura del negozio e poi per venire ai Giardini a visitare il Padiglione USA. Incredibile. Un detenuto è stato messo in libertà vigilata e adesso lavora nel mio padiglione. Questo per me è straordinario. È l’idea che la cultura può offrire una possibilità. Ed è questo il mio sogno.

Da qui il titolo del tuo progetto veneziano, Tomorrow is Another Day
Sì, c’è sempre un altro domani, c’è sempre un altro giorno. E bisogna sempre avere speranza.

Speranza è allora qualcosa che legherei ai concetti di resistenza, di conflitto, di desiderio e di riscatto.

Esatto, la speranza, per me, non è mai qualcosa da definire in termini di ingenuità.

Mark Bradford, Spoiled Foot (detail), 2016 Photo Joshua White. Courtesy the artist and Hauser & Wirth

Mark Bradford, Spoiled Foot (detail), 2016 Photo Joshua White. Courtesy the artist and Hauser & Wirth


Un’ultima domanda. Abbiamo parlato di politica, di cambiamenti sociali. Non possiamo tralasciare il capitolo “mercato”. Tu sei un artista quotatissimo, ma con una carriera solida. Spesso però i giovani vengono lanciati nel sistema e poi buttati via, dopo essere stati spremuti prematuramente. Qualcosa non funziona più. Gallerie, fiere e collezionisti hanno molto potere, critici e musei hanno perso ruolo, autorevolezza…
Vedi, spesso le gallerie d’arte comprendono bene e chiaramente chi è l’artista, ma sono gli artisti a non capire cosa sono le gallerie. La galleria deve rappresentare una parte della tua pratica e certamente non la più importante. Devi avere intorno curatori, critici, amici, una rete di sostegno… Perché la galleria, alla fine, non è altro che “mercato”. Non è tua madre, non è la tua amante, non è il tuo protettore. È importate avere un network forte, costruire rapporti di fiducia e non affidarsi solo alle gallerie: diventerebbe pericoloso.
Avere una galleria è un po’ come avere una relazione con un uomo sposato! Bisogna stare attenti, perché non avrai mai tutto. La galleria sta lì solo per una parte di ciò che fai, e quindi occorre guardare in prospettiva. Loro non sono lì per guidarti, per darti delle idee. Di questo parli con gli amici, con le persone di cui ti fidi. Sta allora all’artista definire la sua relazione con i galleristi. È una cosa che bisogna sempre ricordarsi.

Ed è politica, ancora una volta, fra relazioni, definizioni di spazi sociali e personali. Scelte e rivendicazioni.
Sì. Io a volte mi sento un po’ insicuro, perché le gallerie ti chiedono questo, poi ti chiedono quest’altro, sei circondato da persone che fanno pressioni… A un certo punto mi trovo subissato da richieste per mostre, aste, opere di beneficienza. E allora ogni tanto mi fermo e dico: “Ehi, aspettate un attimo! Sono IO l’artista”. E dico NO. Un NO chiaro. È un po’ come per il sesso! Come quando dici, seccamente: “No, mi spiace! Il corpo è mio!”.

Helga Marsala

www.markbradfordvenice2017.org

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Helga Marsala

Helga Marsala

Helga Marsala è critica d’arte, editorialista culturale e curatrice. Ha insegnato all’Accademia di Belle Arti di Palermo e di Roma (dove è stata anche responsabile dell’ufficio comunicazione). Collaboratrice da vent’anni anni di testate nazionali di settore, ha lavorato a lungo,…

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