Di batteri e altre storie. Intervista a Davide Balula
A pochi giorni dall’apertura della sua personale alla Gagosian Gallery di Roma, abbiamo intervistato Davide Balula, scoprendo che i batteri sono cosa buona e giusta…
Di origini portoghesi, un passato nella musica sperimentale, Davide Balula (Vila Dum Santo, 1978) ha collaborato con chef stellati, ballerini, mimi, musicisti, persino borseggiatori “professionisti”. Per la sua opera esposta alla mostra Shit and Die a Torino nel 2014 aveva usato 10 tonnellate di terra. Affascinato dalla tecnologia, dagli esperimenti nella genetica, nella biotecnologia, dai dispositivi digitali di trasmissione, dai processi di trasformazione della materia del linguaggio e dell’informazione, Balula ci vuole dire che tutto ciò che conosciamo non sempre corrisponde a ciò che percepiamo. Per la mostra ha creato una sorta di percorso corporeo/esperienziale e un’installazione di alcuni nuovi lavori della serie Burnt Paintings, creata ad hoc. Inoltre, per le Giornate Europee del Patrimonio, promosse dal MiBACT (19-24 settembre), una delle sue nuove sculture dal titolo Iron Levels sarà esposta nel Salone monumentale della Biblioteca Angelica di Roma.
Passato, presente, futuro: influenze, ambizioni e aspettative.
Influenze del passato: eventi nella mia vita privata combinati alle decisioni prese dalle molecole e dai batteri, quelli che vivono nel mio corpo e quelli influenzati dai gesti della gente.
Ambizioni del passato: volevo diventare un cuoco, ma, a quel tempo, ero un bambino piccolo. Penso che le persone, oggi, si fidino maggiormente di me nel vedermi con un coltello affilato in mano.
Aspettative del passato: non ricordo il momento in cui volevo diventare più vecchio.
Influenze del presente: ciò che aiuta l’umanità a rendersi conto che noi tutti condividiamo lo stesso mondo.
Ambizioni del presente: padroneggiare la gestione del tempo.
Aspettative del presente: in questo momento sono impaziente di ricevere una consegna qui a Lione. Spero che arrivi presto perché devo essere a Roma. Fortunatamente in entrambi i posti c’è del buon cibo.
Influenze del futuro: un sentimento strano, ma piacevole, di subire l’influenza di cose che non sono state ancora scoperte.
Ambizioni del futuro: allenarmi per raggiungere i miei obiettivi. Quando faccio un passo avanti, però, il centro del bersaglio si sposta un po’ più in là. Forse dovrei allargare il centro del bersaglio oppure aumentare il mio grado di tolleranza.
Aspettative del futuro: la morte? Immagino che ognuno di noi la preveda a un certo punto, ma teniamoci questo per il futuro.
Più che esserne il protagonista, consideri la performance come esperienza individuale e collettiva da condividere.
Senza dubbio. Performance è un termine ampio. Cerco di focalizzarmi sia sul suo livello più intimo e psicologico, e allo stesso tempo, su cose con cui potremmo relazionarci, come quelle di cui abbiamo già avuto esperienza o da cui possiamo attingere con disinvoltura dalla nostra memoria.
Hai mosso i tuoi primi passi nella musica sperimentate. Che cosa hai imparato da quell’esperienza?
In realtà prima del suono ho iniziato con la luce. Sin dall’inizio sono stato affascinato dal video e dalla fotografia e credo, quindi, di essere arrivato alla musica da una prospettiva cinematica, facendo cinema senza immagini, collezionando tonnellate di registrazioni sul campo su nastro o minidischi. Penso di considerarmi ancora un musicista, non perfettamente formato, ma nello spirito. La maggior parte delle volte, osservo tutto dalla prospettiva del musicista: la composizione, la texture, i testi delle canzoni, l’acustica, il contesto, la memoria di una melodia… La musica, sperimentale o meno, dipende dal tempo, reagisce allo spazio e “sanguina” dappertutto, rallentata dai muri o trasportata facilmente sull’acqua. Puoi fischiettarla, senza neanche rendertene conto. Gioca con il linguaggio e c’è sempre spazio per unirsi al battito.
Fuoco, fulmini, combustioni sono stati mezzi impiegati da alcuni artisti negli Anni Cinquanta e Sessanta. Penso alle combustioni di Alberto Burri, ai dipinti col fuoco di Yves Klein, ai Lightning Fields di Walter De Maria o ad alcune installazioni di Pier Paolo Calzolari, solo per fare qualche esempio. Che cosa significa per te il fuoco e in che cosa i tuoi lavori si differenziano?
La combustione e la produzione di carbone sono responsabili delle più antiche manifestazioni nel fare arte. Anch’io tengo occasionalmente un fuoco addomesticato quando fumo una sigaretta e mi piace pensarlo come una torcia portatile e giocare con l’intensità della brace e con le sue variazioni di colore. Col suo flusso costante, il fuoco mostra sotto ai nostri occhi tutti questi passaggi. Sono sempre stato affascinato dal cambiamento della materia, dalla trasformazione di un pezzo di pianta disidratata in fiamme ‒ la luce, il fumo ‒ in una macchia scura, una pila polverosa di cenere che vola via e cade come polvere sottile a chilometri di distanza. Non so se i tipi che citi siano stati dei fumatori. Quei ragazzi degli Anni Cinquanta e Sessanta… Quell’epoca aveva un forte pregiudizio, il fuoco era associato alla mascolinità, e penso che questo sia stato superato. Non mi considero un fumatore, fumo solo occasionalmente e come succede a molti, ne sono sicuro, a parte quando è usato come arte, il fuoco mi diverte molto. Quando scoppietta in un focolare, se ne ha cura in un falò all’aperto con gli amici, o si controlla sotto a del cibo profumato…
Oltre a bruciare le tele usi altri materiali come i batteri. Per una serie di lavori hai collaborato con lo chef stellato Daniel Burns. A parte il suo cognome (“burns” significa brucia) che, associato al tuo lavoro, mi fa sorridere, che cosa ne è uscito?
In effetti, è una coincidenza divertente che Daniel faccia di cognome Burns. Sono arrivato a lui per quel progetto perché era considerato uno dei migliori chef in quell’ambito e siamo da subito diventati molto amici. Un ottimo risultato, senza alcun dubbio! Quando cresci in Francia, impari molto presto che quei batteri buoni fanno la differenza nell’impasto del pane e nel formaggio. E il fatto che i sapori del gelato siano immagazzinati in quel tipo di grasso e che quella crema grassa sia tenuta insieme dai batteri è stato per me un elemento essenziale del progetto. Quell’opera era intitolata Painting the Roof of your Mouth (Ice cream) e ho intenzione di continuare a fare mostre sensoriali in piccoli spazi umani.
Qual è il tuo rapporto con la tecnologia. Impieghi anche dispositivi digitali come i router wi-fi.
La tecnologia mi aiuta a vedere il mondo in tanti modi. Sono sicuramente grato a tutto il lavoro che i laboratori scientifici svolgono. Cerco di essere sul pezzo quando si parla di progressi nella medicina. Sono affascinato dagli esperimenti non autorizzati nel campo della biologia, della biotecnologia, della genetica e da altri tentativi di estendere il corpo umano, o ogni forma di entità organica. Sono i miei argomenti preferiti in letteratura che recupero online non appena sono pubblicati. Ma sono anche la visione più spaventosa del futuro dell’umanità per come quelle scoperte sono poi gestite. Gli scienziati dipendono da corporation potenti che commissionano la ricerca e le scoperte e/o pagano per tutto questo.
Sei tra i giovani artisti della scuderia Gagosian. Com’è andata?
In modo naturale. Serena Cattaneo Adorno (la direttrice di Gagosian a Parigi) mi ha prima invitato a mostrare il mio lavoro in diversi contesti. Ha sempre supportato progetti impegnativi che mi sfidassero. E gli artisti danno il massimo quando qualcuno crede in un’idea che diventa una buona idea, se è data loro una chance.
Per la tua personale da Gagosian a Roma hai creato una specie di percorso corporeo/esperienziale. Di che cosa si tratta?
Il lavoro al quale ti riferisci si chiama Idle Hands. È composto di una sfera in metallo che sei invitato a prendere da una base ricavata nel travertino e a tenerla in mano mentre cammini nello spazio della mostra. La palla è molto densa, piuttosto pesante per la sua dimensione, e se la tieni in mano sufficientemente a lungo prende la temperatura delle tue mani. Ti abitui al suo peso, alla dimensione e alla sensazione, senza che diventi necessariamente parte del tuo corpo.
Hai anche prodotto una nuova serie di dipinti bruciati con un allestimento site specific.
Sì, quei dipinti bruciati (più la loro impronta), come tutti i dipinti di quella serie, dipendono principalmente dal modo in cui sono installati e dalla relazione che si crea tra loro. A Roma l’installazione fa da contrappeso alla piccola palla di metallo. L’intera installazione e i dipinti sono stati assemblati come a sfidare la gravità, come nelle acque profonde. O nello spazio, forse?
‒ Daniele Perra
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