Fra arti visive, cinema e teatro. Intervista a Shirin Neshat
L’artista iraniana approfondisce il senso di una carriera al confine tra le discipline. Entrando nel dettaglio della sua recente esperienza nel ruolo di direttrice artistica dell’“Aida” diretta da Riccardo Muti al Festival di Salisburgo.
La fotografa e film maker iraniana Shirin Neshat (Qavzin, Iran, 1957), che ha presentato di recente la sua ultima opera cinematografica, Looking for Oum Kulthum, alla 74. Mostra del Cinema di Venezia nella sezione Venice Days ‒ Giornate degli Autori, è anche reduce dal successo conquistato come direttrice artistica dell’Aida di Riccardo Muti, andata in scena al Festival di Salisburgo nell’agosto scorso. In questa intervista esclusiva ha accettato di parlare dei rapporti che si intrecciano fra la sua nuova avventura teatrale e l’attività di artista visiva.
L’Aida del Maestro Riccardo Muti a Salisburgo è la sua prima esperienza nella direzione artistica di un’opera lirica? Come si è trovata in questo ruolo?
Assolutamente sì, è stata la mia prima esperienza in questo campo. Appena sono arrivata a Salisburgo mi sono sentita preoccupata per ogni cosa, soprattutto riguardo alla complessità della produzione che dovevo affrontare e dubbiosa a proposito della mia personale capacità di dirigere un’opera lirica. Ogni cosa mi sembrava “soverchiante”: avere a che fare con un’opera scritta dal grande compositore Giuseppe Verdi, essere guidata da uno dei più famosi direttori d’orchestra del mondo, Riccardo Muti, lavorare con una delle più importanti soprano di tutti i tempi, Anna Netrebko, senza parlare poi del contesto in cui tutto ciò doveva avvenire, il Festival di Salisburgo, uno dei più prestigiosi festival musicali al mondo. Tutto sembrava eccessivo per una visual artist e film maker che non aveva mai diretto un’opera lirica in precedenza.
Che cosa successe, poi?
Poco per volta, appena mi trovai circondata dal mio team artistico e dopo che incontrai i principali interpreti e che il Maestro Muti arrivò a Salisburgo, mi sentii inaspettatamente a mio agio e molto fiduciosa. Credo di aver rimosso, a quel punto, ogni timore. Dissi a me stessa che dovevo fidarmi delle mie intuizioni e dare, semplicemente, il meglio di me. Dopotutto, non c’era nessuno che si potesse aspettare da me un’Aida classica, bensì qualcosa di totalmente differente. In questo senso tutti sono stati di grande sostegno per me.
Come e dove ha incontrato Muti la prima volta?
In questa produzione, il ruolo di Muti e la sua approvazione della mia visione dell’Aida, in termini sia concettuali che estetici, sono stati assolutamente fondamentali per lo sviluppo delle mie idee. Ci presentò alcuni anni fa a New York Markus Hinterhaeuser, il direttore del Festival di Salisburgo. Si sviluppò all’istante un ottimo rapporto e nacque una grande stima reciproca. Diventai amica di sua moglie Cristina, che vanta anche lei una grande esperienza nel campo della musica classica e dirige un festival musicale nella città dove vive con il marito, Ravenna. Parecchi mesi più tardi, quando il progetto dell’Aida prese corpo, andai con il production designer e con Markus a visitare Riccardo a Ravenna per discutere le mie idee, e mostrargli i modelli di scena e gli schizzi dei costumi. Ero preoccupata delle sue reazioni, ma fui felicemente sorpresa quando egli si mostrò d’accordo sui principali concept, cosa che permise di passare rapidamente alle fasi successive del lavoro.
C’è qualcosa che vi accomuna nell’impegno professionale?
Ben presto mi resi conto di quale fosse l’idea del Maestro: presentare un’Aida che ritornasse alla purezza originaria e alla felicità espressiva del capolavoro verdiano, rimanendo fuori dalle tradizionali rappresentazioni dell’Aida con tutti gli abusati cliché dell’Antico Egitto e del Regno d’Etiopia, con gli elefanti e i cavalli portati sul palcoscenico. Muti voleva la semplicità sulla scena, e soprattutto voleva realizzare una nuova Aida, in cui si mescolassero culture, religioni ed ere diverse. Con l’avanzare del progetto e durante le prove in teatro, espresse osservazioni critiche e commenti che si sono poi rivelati utilissimi. Se ciò non fosse avvenuto, non avremmo avuto alcun proficuo scambio di idee.
Quali sono i punti di contatto tra il lavoro svolto per l’Aida e le sue opere fotografiche, per esempio quelle della serie The Home of my Eyes, presentate a Venezia in questi mesi al Museo Correr? Sono consapevole di quanto il mio approccio all’Aida abbia attinto ispirazione da mie passate videoinstallazioni, soprattutto in termini di graphic design, spazialità, architettura e coreografia. Se guardiamo con attenzione agli allestimenti per l’Aida e pensiamo alle mie videoinstallazioni, per esempio Rapture (1999), Fervor (2000) o Passage (2001), per citarne solo alcune fra le più note, possiamo cogliere un senso estetico e un’impostazione registica molto simili.
C’è un nesso fra le iconiche figure apparse in scena a Salisburgo e quelle che appaiono nelle fotografie esposte a Venezia?
Inoltre, il nesso con la mia attuale ricerca fotografica è particolarmente evidente nell’illuminazione scenica degli interpreti che ho adottato a Salisburgo. Per esempio, nell’ultimo atto, quando Radamès e Aida stanno per morire nella tomba, appare sul palco solo un fascio di luce puntato su di loro, il che rende la scena molto “fotografica” e, insieme, scultorea. Inoltre, se si osserva Anna Netrebko, la postura del suo corpo e i gesti delle sue mani appaiono analoghi a quelli assunti da uomini, donne e bambini nelle mie fotografie in bianco e nero della serie The Home of my Eyes.
Riguardo all’opera cinematografica, pensa che qualche aspetto degli allestimenti messi a punto in passato sia stato un precedente particolarmente importante ai fini della realizzazione scenica dell’opera lirica?
Certo, assolutamente. Come è noto, il mio lavoro, incentrato su video e cinematografia, ha una sua precisa caratterizzazione dal punto di vista stilistico: surreale e, spesso, teatrale. Dunque non è così strano che io mi dedichi all’opera lirica. Ma esiste una grande differenza fra arte visiva e teatro: per quanto riguarda un film o un video, l’artista può controllare il punto di vista dell’audience, guidando il pubblico là dove vorrebbe che dirigesse il suo sguardo, per esempio grazie alla modulazione della profondità di campo, minore o maggiore. Ma se si tratta di un’opera teatrale, il regista, anche se può esercitare qualche controllo con la luce, non può comunque “indirizzare” l’occhio dello spettatore a suo piacimento.
A proposito della coordinazione tra musica ed effetti visivi, immagino abbia dovuto affrontare problematiche mai incontrate prima…
La sfida più grande è stata creare una buona scenografia senza sminuire il potere della musica e più specificatamente la presenza dei cantanti e il loro intervento sulla scena. Ho potuto constatare come sia pericolosamente facile che prenda il sopravvento su ogni cosa la parte visiva, che in ultima analisi può distrarre, e anche annoiare, un’audience che va a teatro per ascoltare innanzitutto, e soprattutto, la musica.
Ha dovuto affrontare anche altre sfide?
Ci sono state anche altre sfide in questo progetto, per esempio fronteggiare le critiche rivolte all’Aida dai tanti intellettuali del Medio Oriente che l’hanno definita un’opera “orientalista”, che ha fornito un’immagine patetica e negativa del mondo arabo; e, ancora, non sminuire il potere della musica verdiana e della narrazione dell’Aida, che a mio parere è senza tempo e di valore universale.
Un altro mio intento è stato mantenere la grandeur dell’Aida tradizionale, che ha sempre fatto parte della sua identità, senza riproporre cliché ormai consolidati. Così la scena alla fine ha pagato il suo tributo alla monumentalità dell’architettura dell’Antico Egitto ‒ con i templi, le piramidi, le tombe ‒, rimanendo però supermoderna e minimalista.
Qual è la sua opinione sulla musica di Giuseppe Verdi? Il sentimento patriottico è sempre molto presente nelle composizioni verdiane. Ci sono momenti di quest’opera che ha apprezzato in modo particolare?
Il mio amore per l’Aida è cresciuto nel tempo. Si tratta di una musica molto potente e di grande impatto emozionale. Ciò che più mi ha colpito sono la forza combinata delle voci soliste delle Arie e il ruolo del Coro. Apprezzo di tutta l’opera verdiana la straordinaria capacità del compositore di stabilire un ponte fra le emozioni personali, intimamente umane, e le dinamiche socio-politiche e religiose di nazioni intere. Trovo, inoltre, che sia toccante, in particolare, la scena al Tempio, quando Radamès sta per essere iniziato alla guerra, e si avverte il canto, eccezionalmente sereno e armonioso, dei sacerdoti e delle sacerdotesse che gli porgono la spada.
Aida è anche la personificazione del sentimento dell’amor patrio sviluppatosi in aree geografiche non molto lontane dal suo Paese natale, l’Iran. Ha accettato la direzione artistica di quest’opera anche in considerazione della vicinanza spirituale fra lei e la protagonista? O avrebbe accettato comunque la sfida?
All’inizio non associai l’invito che avevo ricevuto a tali argomentazioni, ma in un secondo tempo, più studiavo la materia, e comprendevo la storia e la vicenda personale di Aida, maggiormente comprendevo le ragioni di questo incarico. Dopotutto io sono una donna mediorientale, di conseguenza molto sensibile agli stereotipi occidentali creati nei secoli intorno alle comunità musulmane e arabe. Quindi adatta a dare con consapevolezza un suo contributo etico alla produzione dell’opera. Inoltre mi sono profondamente identificata nella dinamica narrativa di Aida, soprattutto a proposito delle relazioni fra potere (re ed esercito), fanatismo religioso e triangolo amoroso (Aida, Radamès, Amneris).
Quanto c’è della sua storia personale nelle sue opere?
Guardando al mio passato, vedo come tutta la mia produzione, senza distinzione tra fotografia, videoinstallazione o film, abbia toccato in un modo o nell’altro situazioni complesse, vissute da individui impegnati a combattere tirannie politiche o religiose: temi che si relazionano fortemente con la mia storia e la mia esperienza personale, e con il mio essere diventata un’esiliata dopo la rivoluzione islamica avvenuta in Iran a fine Anni Settanta. Naturalmente, mi sento coinvolta dalla storia di Aida anche come donna che vive in esilio e che prova profondi sentimenti di dolore e di nostalgia per il suo Paese lontano.
‒ Alessandra Quattordio
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