Il video è partecipazione. Intervista a ZaLab
Il 21 e 22 settembre si terrà a Sarajevo un'importante conferenza di cui Artribune sarà media partner. Si parlerà del ruolo dei nuovi media e dell'uso responsabile delle informazioni che ci arrivano attraverso di essi. ZaLab, collettivo italiano impegnato nel video partecipativo, verrà premiato in quei giorni dell'Evens Prize for Media Education 2017. Prima di partire per Sarajevo abbiamo incontrato Michele Aiello, tra i soci del collettivo, per parlare del premio e delle attività dell'associazione.
Che cos’è ZaLab e da chi è composto?
ZaLab è un collettivo di videomaker che lavora insieme da 11 anni. La nostra filosofia ruota intorno al cambiamento sociale tramite il cinema. Per questo, oltre a produrre e distribuire documentari sociali che parlino di comunità marginalizzate nel discorso pubblico, abbiamo nel nostro DNA la promozione del video partecipativo, con il quale si forniscono gli strumenti per auto-narrarsi. Attualmente ZaLab è formato da un team di quattro professionisti, divisi tra due sedi, una a Padova e una a Roma, che sostengono la struttura a livello operativo e da cinque soci, autori e registi impegnati a livello creativo e nella gestione dei progetti. Attualmente i soci sono Andrea Segre, Matteo Calore, Stefano Collizzolli, Sara Zavarise e Michele Aiello.
Come e con quali intenzioni è iniziata la vostra collaborazione?
ZaLab è attiva dal 2006 e ha avuto tanti registi e amici che hanno collaborato e che ne hanno fatto parte. L’intenzione iniziale è la stessa di oggi. Portare il cinema dentro le comunità marginalizzate e le periferie e fare in modo che siano gli stessi appartenenti a quelle comunità ad auto-narrarsi.
Chi si fa portatore dell’auto-narrazione può essere un aspirante regista oppure possono essere semplici persone che sentono forte l’esigenza di comunicare la loro condizione umana e sociale. All’interno di questa filosofia ZaLab produce e distribuisce documentari e promuove la tecnica del video partecipativo.
Entrare all’interno della realtà ‒ soprattutto quella più drammatica ‒ attraverso l’impiego del video partecipativo. A quali tematiche e a quali ambiti del sociale rivolgete maggiore attenzione?
Il nostro focus gira sempre intorno ai diritti civili e sociali. Negli anni le produzioni hanno insistito sul fenomeno migratorio che ha coinvolto persone in viaggio attraverso il Mediterraneo o in transito attraverso l’Italia, ma anche persone che hanno scelto l’Italia come Paese di destinazione. L’abbiamo fatto parlando del viaggio, dei respingimenti, della detenzione nei centri di identificazione ed espulsione, del sistema d’accoglienza, attraverso l’auto-narrazione e con materiale d’archivio. Abbiamo parlato anche della condizione dei ghetti istituzionali in cui sono ospitate le popolazioni rom nelle maggiori città italiane, della crisi dell’industria italiana, della speculazione edilizia, dello sfruttamento del bracciantato nel sud Italia e della bellezza della pedagogia attiva italiana all’interno della scuola pubblica.
In un tempo come quello che stiamo vivendo, in cui tutti possono potenzialmente essere video-reporter pur senza avere alcuna conoscenza dello strumento e del linguaggio tecnico, quanto è difficile per il video attestarsi ancora come efficace strumento di investigazione?
In realtà pensiamo che nonostante la relativa semplicità della produzione audiovisiva, attraverso gli smartphone, ci sia una grosso vuoto di conoscenza e consapevolezza di come agiscano le immagini e di come queste, attraverso i canali istituzionali, possano essere enormemente manipolate per fini diversi dall’interesse pubblico.
Le immagini sono il mezzo più potente di questo periodo storico e le professionalità che si dedicano alla produzione audiovisiva hanno oggi un ruolo più importante che mai. Non è solo una questione di produzione video ‒ che oggi attraverso i social media è alla portata di tutti ‒, ma è anche una questione di farsi consumatori critici delle immagini. Bisogna imparare a saper decodificare le immagini che si vedono, saperle decostruire e ricostruire. I media non veicolano mai immagini in modo neutro.
Qual è la differenza tra un video partecipativo, un documentario e un video-reportage?
Il video-reportage è il racconto di una o più firme che riportano quello che hanno visto e che descrivono emozioni e fatti secondo un loro punto di vista. È qualcosa che ha bisogno di una audience specifica, che risponde a una rilevanza d’attualità e fa affidamento a un editore che ha bisogno di venderlo appositamente per specifici target.
Il documentario agisce per mezzo di visioni artistiche di autori e registi che si possono permettere un tempo più lento e dilatato rispetto alle dinamiche del giornalismo d’approfondimento. Per come interpretiamo noi il documentario, inoltre, i personaggi spesso e inevitabilmente condizionano il racconto filmico, e partecipano alla scrittura del film stesso.
Il video partecipativo è una tecnica di scrittura condivisa e di apprendimento delle forme di narrazione audiovisive. Spesso viene utilizzato in contesti di marginalità sociale e di periferia, e si propone quale mezzo di riappropriazione di uno spazio di racconto che parte dall’interno delle stesse periferie. In tali casi non è rilevante solamente la dinamica collaborativa che si instaura tra diversi autori, interni e/o esterni al contesto di riferimento, ma diventa cruciale anche la partecipazione della comunità di riferimento, la quale, in buona parte, condiziona la scrittura e interagisce con la narrazione nel suo farsi.
Il documentario “impegnato” in questi anni ha riguadagnato nuovo interesse, raggiungendo risultati importanti, a livello di pubblico e di accoglienza nei festival internazionali (un esempio italiano è senza dubbio Fuocoammare di Gianfranco Rosi). Il cinema sta attraversando una nuova e sincera attenzione verso il reale?
Il documentario è un genere che ha bisogno di più attenzione da parte delle istituzioni e del pubblico, perché ha una funzione artistica e sociale che necessita di un riscontro più forte da parte della società. Senza un rapporto forte con il pubblico più generalista, il documentario si ritrova a parlarsi all’interno di una nicchia di addetti al settore, cosa che rende meno dinamica la critica. Speriamo che questa rinnovata attenzione al documentario continui a crescere, per dar linfa soprattutto agli autori volenterosi di sperimentare nuove modalità di racconto.
I vostri documentari sono sempre connessi a tematiche delicate del sociale. Quando realizzate un film, date per scontato che il pubblico sia responsabile ed educato alla comprensione e all’interpretazione del messaggio? Credete, insomma, nello spettatore?
Crediamo che ci siano forti settori della società interessati ai temi che trattiamo e cerchiamo il più possibile di fare rete con loro. La nostra doppia natura di produttori e distributori ci consente di trovare spazio nei contesti più popolari e questo ci avvicina a diversi tipi di spettatori. Più in generale, però, non possiamo dare per scontato che lo spettatore sia recettivo per il solo che fatto che un documentario parla di una tematica che potenzialmente lo interessa. È necessario sviluppare intorno alle proiezioni dei momenti di riflessioni e di convivialità, di modo da far sentire alle persone che la tematica non fa parte solo di un racconto di immagini, ma che quel racconto è vivo e può stimolare discorsi che vanno ben oltre il cinema. Chiamiamo questo lavoro di rete “distribuzione civile”, ossia una distribuzione cinematografica che concede il film anche fuori dal circuito delle sale cinematografiche e che permette la visione in scuole, piazze, circoli, parrocchie. In numerose occasioni abbiamo sperimentato che quei contesti riescono a costruire momenti di comunità molto interessanti.
Siete stati premiati di recente dell’Evens Media Literacy Prize 2017, il premio della Evens Foundation conferito a progetti che intervengono nel sociale attraverso l’uso consapevole delle nuove tecnologie e dei mezzi di comunicazione di massa. Il progetto sarà premiato a Sarajevo, durante la conferenza Media Meet Literacy il 21-22 settembre. In cosa consiste?
In Italia stiamo vivendo una nuova crisi politica che tenta di speculare sull’immagine dello straniero per massimizzare il consenso elettorale. Razzismo e xenofobia sono purtroppo tornati a essere preponderanti nel discorso pubblico italiano ed è necessario rinforzare le azioni che promuovono dialogo e conoscenza reciproca. Se la paura è frutto dell’ignoranza, allora il video partecipativo è uno degli strumenti possibili per avviare percorsi contrari a essa.
In quali maniere?
I laboratori di video partecipativo sono spesso contingenti e, una volta terminati, faticano a radicarsi e a sviluppare auto-narrazioni capaci di contrastare i media classici. Da qui l’esigenza e l’idea di provare a costruire hub di auto-narrazione funzionali al discorso interculturale e contro le derive xenofobe e che possano radicarsi nel territorio grazie alla presenza costante di videomaker impegnati nel sociale.
Evens Foundation ha deciso di premiare questa idea partendo da uno dei quartieri di Roma, Esquilino, uno dei quartieri più interculturali d’Italia. La comunità di riferimento che abbiamo scelto è costituita dagli adolescenti che vengono definiti di “seconda generazione”, cioè i figli nati in Italia da genitori stranieri. L’urgenza di lavorare con gli adolescenti di seconda generazione, piuttosto che con altre categorie di persone, risponde alla questione della cittadinanza e alla concezione di un’identità più aperta e dinamica rispetto alle chiusure nazionaliste.
Come si svilupperà il laboratorio?
Questo laboratorio di video partecipativo si svolgerà in autunno 2017 e in primavera 2018, coinvolgendo adolescenti dai 12 ai 18 anni. I laboratori li porteranno a imparare il mestiere di fare cinema e li porterà a decostruire e criticare le immagini dei media mainstream.
Media literacy e produzione cinematografica si combineranno così in un percorso di rielaborazione della cittadinanza e di una nuova identità italiana. Inizialmente il nome del progetto era Project Otherness, per sottolineare l’importanza di ragionare sull’alterità. Oggi abbiamo modificato il nome in Flying Roots. Letteralmente significa “radici volanti” e vuole essere uno stimolo, anche visivo, per ragionare sulla propria identità.
‒ Alex Urso
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