10 anni di Collezione Maramotti. Intervista alla direttrice Marina Dacci
Collezione Maramotti, a Reggio Emilia, celebra i suoi dieci anni di programmazione e si presenta al pubblico attraverso due artiste donne, con due personali a loro dedicate. Emma Hart e Luisa Rabbia annunciano, come in una dichiarazione di poetica, presente e futuro di uno fra gli osservatori sulla contemporaneità più attivi del centro Italia.
Il 15 ottobre, a Reggio Emilia, Collezione Maramotti si mette in mostra. La personale di Luisa Rabbia, Love, accoglie un corpus di dieci opere realizzate dal 2009 al 2017, tutti lavori acquisiti dalla Collezione Maramotti che da molti anni segue la sua ricerca. Love include interventi su carta e su tela – che rappresentano un passaggio significativo del suo lavoro dal disegno alla pittura – un libro d’artista e un’importante opera site specific, realizzata direttamente sulla parete dello spazio espositivo durante la residenza di Rabbia in Collezione. La mostra prende il titolo da un grande dipinto, mai esposto in precedenza, che fa parte della trilogia Love-Birth-Death, l’ultimo progetto dell’artista. Accompagna la mostra una pubblicazione, realizzata per l’occasione, con un contributo di Mario Diacono.
A qualche metro di distanza campeggerà la grande installazione multicefala di Emma Hart ‒ vincitrice della sesta edizione del Max Mara Art Prize for Women ‒ dopo la prima tappa londinese alla Whitechapel Gallery con l’installazione fittile, acquisita dalla Collezione, dal titolo Mamma Mia!. L’allestimento dell’artista negli spazi della Collezione presenterà significativi cambiamenti rispetto alla mostra londinese, in base alle caratteristiche del luogo che la ospita. Ne abbiamo parlato con la direttrice, Marina Dacci.
L’INTERVISTA
Dieci anni fa hai iniziato a dirigere una collezione d’arte e uno spazio che rappresenta una raccolta dettata dal gusto personale di una famiglia: oltre 120 artisti analizzati negli ultimi 40 anni. Quali sono state le tue modalità di ri-selezione, rivalutazione ed esposizione al pubblico dell’intera collezione?
Se dobbiamo fare un discorso dobbiamo sempre usare il pluralia tantum, questo è un carro a più voci, e amo sottolinearlo sempre. Nel momento in cui sono stata contattata dalla famiglia di collezionisti, mi sono state fornite tre chiavi di lettura di quella che era la loro idea per aprire una collezione e uno spazio al pubblico. Su questo c’è sempre stato un margine aperto, in continuo divenire, su come impostare nuovi format in termini di fruizione, di back office e via discorrendo. Il grande contributo dei collezionisti, della famiglia Maramotti, nell’improntare queste tre chiavi di lettura, quando si sono dovuti scegliere i punti salienti della collezione per raccontare la storia di una famiglia, è stato imprescindibile per ricomporre una lettura storica dei passaggi che aveva vissuto il padre.
Come dialogano le formazioni della collezione contemporanea con le acquisizioni precedenti?
Non esiste alcuna scelta curatoriale che sottenda alla selezione delle opere per la collezione storica. È una scelta che è stata fatta con grande fluidità nel pieno rispetto di una futura crescita della racconta stessa. Ai visitatori noi raccontiamo spesso che è una biografia per immagini e non un progetto curatoriale di messa in display di una selezione di lavori dalla Collezione Maramotti. Il mio compito, svolto in collaborazione con il gruppo di lavoro, è stato quello di sistematizzare tutto il patrimonio, schedarlo, restaurarlo e creare dei database di gestione, perché, al di là della patrimonializzazione dei lavori, l’intento è consentirne una buona gestione e una buona valorizzazione. A partire da questo sono cominciate tutte le attività.
Qual è stato il primo passo, la prima mossa di avvicinamento alla Collezione?
La prima fase ha rappresentato un censimento e una modalità di tracciatura, di ricerca sulle opere, sulla loro provenienza, sulla loro storia e sul rapporto con l’artista, creando numerosi database. Fisicamente, abbiamo dovuto costituire un archivio e una biblioteca per sistematizzare tutti i documenti che ci erano stati affidati. E poi abbiamo dovuto ragionare su come, al di là del nucleo storico, cominciare a dar vita a percorsi che facessero emergere nuove letture del patrimonio delle opere ancora contenute in archivio. Le mostre di Open storage, seguendo un tema conduttore, un filo rosso hanno recuperato lavori che il pubblico non poteva vedere o non era stato in grado di farlo, in esposizione permanente, opere che sono state coagulate all’interno di una visione comune.
L’ultima è stata Industriale immaginario che, come mostra, è partita da Nuvolo per arrivare ai lavori di Elisabetta Benassi. Un sorta di anticipazione di quella ricerca che ne è seguita, a distanza di un anno, quando i lavori di Elisabetta sono poi entrati in collezione. Un’artista che abbiamo seguito nel corso del tempo, dai collezionisti, esattamente come Luisa Rabbia. Ognuno di questi elementi, come i format di fruizione della Collezione, i format di organizzazione degli spazi che sottendono a determinate attività, tutto un lavoro di back office funzionale alla valorizzazione del patrimonio e alla presentazione dei progetti, sono elementi da me fortemente impostati fin dal principio.
Quale lato della personalità, quale volto di un’azienda familiare dalla spinta globale rappresenta la Collezione? Su quali principi si fonda la disgiunzione tra azienda e Collezione?
Io apprezzo molto, personalmente, che ci sia stata sempre molta coerenza nel presentare la Collezione come una collezione di famiglia e che tale sia rimasta fino a oggi. Per gusto del padre e per i passaggi di consegne nei confronti dei figli. Parlare di una collezione d’impresa significa anche parlare di una ricerca di patrimonializzazione di ogni singolo componente, nei confronti di un brand, ma questa non è la finalità di Collezione Maramotti. La vocazione di questo progetto è scritta nelle prime tre righe di presentazione della nostra mission, nella quale viene specificato il punto di vista di un collezionista che si pone come obbiettivo di rimettere ordine nel disordine del proprio mondo, guardando verso il futuro, incarnando quasi una compulsione, un’ossessione.
Anche se esistono confini decisamente più labili.
È un insieme di passione, di desiderio, di volontà di poter cavalcare una visione ampia nel tempo che appartiene a una persona fisica e non a un’azienda, seguendo diverse modalità secondo le quali la collezione viene presentata. Essendo i proprietari, contestualmente, collezionisti e anche proprietari di Max Mara, spesso si crede che questo possa ingenerare confusione o sovrapposizioni, tendendo a mettere insieme i due livelli, ma invece non è così. Perché Max Mara non entra in alcun modo nella programmazione artistica: l’azienda ha offerto un edificio, dando la possibilità di fornire tutti i servizi preventivati a budget perché ogni anno c’è una sorta di sostegno finanziario, una sorta di copertura di quelli che sono i costi vivi per la gestione del patrimonio, ma scientificamente non c’è alcun tipo di controllo. E nemmeno di un’organizzazione giuridica e formale per cui Max Mara entra nelle scelte artistiche della Collezione, che resta legata alla famiglia.
Quali sono state le strategie di acquisizione poste in essere, in questi dieci anni? E secondo quali modalità i signori Maramotti si confrontano abitualmente con le tue scelte?
Il budget di cui viene dotata la Collezione ogni anno viene discusso in base ai progetti e alle attività che si vogliono organizzare, però non copre l’acquisizione delle opere. Voce che viene lasciata libera perché appannaggio dei collezionisti. Le acquisizioni sono svincolate rispetto alla gestione della collezione: se un anno, ad esempio, i collezionisti hanno deciso di selezionare dieci lavori, l’anno successivo potranno decidere di acquisire un numero maggiore o inferiore, a prescindere dai costi della attività della Collezione. Le logiche di acquisizione sono varie. La singola acquisizione dell’opera è in mano ai collezionisti, che con grande discrezione la scelgono in galleria, in asta, in atelier da un’artista o in fiera.
Diversa è, invece la programmazione di un progetto con un invito a un’artista, affidato internamente a noi come Collezione, lungo tutto il processo produttivo, compresa, poi, la successiva acquisizione finale, come trattativa rispetto ai costi artistici sostenuti. È un’organizzazione molto fluida che non ha bordi formali, ma solo riunioni periodiche con i collezionisti, dove ognuno porta all’attenzione proposte oppure visioni significative. Le suggestioni possono arrivare dalla famiglia oppure dai portfolio che io sottopongo alla loro attenzione, perché la linea discriminante è comunque un’idea di gusto in rapporto a una continuità di ricerca, più che a un continuo confronto con il mercato.
Quali sono i trait d’union che attraversano le visioni della Collezione?
La prima sicuramente è l’attenzione all’evoluzione del linguaggio della pittura. Tra mostre collettive e personali, la pittura ha trovato modo di uscire dal limite della tradizione della tela, aggiungendo allo spazio elementi di pittoricità. Un altro tema è la riflessione tra pittura e architettura. La terza chiave di lettura è l’identità dell’artista nei confronti del processo produttivo dell’opera. Stiamo indagando dove cominci e dove finisca la sua capacità di incidere sulla dimensione processuale e come poi il lavoro possa evolvere a prescindere dall’artista. La linea di ricerca dell’entropia è sempre presente.
Con il Prize ci occupiamo di una parte differente dalla commissione, anche se lo spirito di fondo rimane identico: diamo possibilità di crescita a personalità emergenti che vogliono proporre un progetto.
Dunque che cosa significa fare curatela all’interno di una Collezione?
Adesso si usa molto la formula ‘organizzato da’, si tiene al curatore come a una figura ombra, per poter dare centralità agli artisti, io credo che questa sia l’evoluzione. Nella generazione di artisti trentenni e quarantenni stiamo assistendo a un fenomeno di ri-cucitura tra la dimensione sociale e personale, ricalibrando e ricostruendo la propria relazione identitaria con il mondo. Dobbiamo diventare una cassa di risonanza per un centro esterno che si sovrappone con il sé, introitando le proprie incertezze. Non è intimismo, né arte politica molto noiosa. L’artista deve rimanere al cuore di qualsiasi sistema di processo produttivo, al di fuori di qualsiasi potere contrattuale.
Quali sono i rapporti della Collezione con istituzioni culturali europee?
Siamo una realtà atipica nel panorama dell’arte, anche a livello di condivisione, con altre istituzioni, delle mostre che produciamo in Collezione. Molto spesso i progetti che proponiamo sono creati appositamente e dunque non riescono a trasmigrare in altre istituzioni. Quando sono capitate collaborazioni con altre realtà europee è stato perché alcuni progetti sono stati richiesti e adattati per la loro portata individuale, inedita, a tutti gli effetti singolare. Posso dire in anteprima che Antufiev esporrà la maggior parte dei nostri lavori al Mostyn, il 17 novembre. Non solo la co-produzione, ma anche gli scambi e le visite di patrons di vari musei, che vengono a conoscerci. Senza dimenticare la Parsons di New York, una chance di Max Mara US che aveva deciso di sostenere, nel corso di fotografia, per selezionare opere che sono state, a mano a mano, acquisite.
Esiste un lavoro della Collezione Maramotti che ti colpisce, ti cambia, ti sorprende, ogni volta che lo ritrovi?
Posso dirlo senza esitazione: è la combustione di Burri. È una ferita mai chiusa, è un monito sul modo di affrontare la vita e il dolore. Si sente tutta la violenza del vivere e la delicatezza con cui si cerca di rimettere in sesto le proprie cicatrici.
Potresti esprimere un augurio per i prossimi dieci anni di Collezione Max Mara?
Avrei due pensieri, due suggerimenti da dare, prima di tutto a me stessa: non avere paura di essere differenti dalle diverse leve del mondo e del mercato dell’arte. E poi mettersi al servizio dell’arte nel miglior modo possibile.
‒ Ginevra Bria
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