Ritorno in Italia. Intervista a Luisa Rabbia
Luisa Rabbia si concede a una chiacchierata in anteprima in occasione del suo ritorno nel Belpaese. Come protagonista della mostra “Love”, allestita presso la Collezione Maramotti di Reggio Emilia. Che compie dieci anni sul fronte delle attività espositive.
In che modo si è verificata la scissione del progetto Love-Birth-Death da cui è derivato il titolo Love?
Riguardando i miei lavori collezionati dai Maramotti nel corso degli anni mi accorgo che hanno prediletto opere che segnavano una svolta nella mia pratica: così in mostra vediamo il primo lavoro su tela, il primo murale e Love che è il primo quadro di una trilogia su cui ho lavorato nell’ultimo anno. Si tratta di un progetto ambizioso, ogni tela misura 274×513 cm ed è realizzata con matite colorate su acrilico su tela.
Come avete sviluppato questa mostra?
Le acquisizioni sono avvenute nel corso degli anni e naturalmente non sapendo che saremmo arrivati a questo. Nel momento in cui si è concretizzata l’occasione di poterle esporre tutte insieme ci siamo accorti dell’opportunità di raccontare cosa è successo nella mia ricerca tra la mostra personale alla Fondazione Merz a Torino nel 2009 e oggi. Questa piccola retrospettiva con alcuni momenti salienti che la Collezione ha sensibilmente colto mi dà anche la possibilità di mostrare l’evoluzione della mia ricerca da quando sono andata negli Stati Uniti nel 2000.
Sono presenti opere dal 2009 al 2017. Cos’è successo in questi anni?
Se guardiamo il primo lavoro del 2009 vediamo che è ancora figurativo e i soggetti sono dei migranti dormenti. Il sonno come momento d’evasione dal contesto circostante, e non come momento per sognare, è stato mio soggetto di riflessione per molti anni dal 1997 al 2010, soprattutto attraverso la rappresentazione di homeless isolati dal mondo intorno. È dal 2011 che le vene della pelle hanno iniziato a estendersi nell’ambiente, creando percorsi all’interno di paesaggi che sono talvolta interiori e talvolta infiniti. I volti si sono sintetizzati in impronte digitali che catturano l’unicità dell’individuo senza svelare genere sessuale o etnia.
Quali sono le figure che abitano l’immaginario attuale?
In questo momento mi interessa tracciare delle connessioni fra il viaggio all’interno del corpo, e quindi l’esperienza personale, e il paesaggio esteriore, quindi collettivo.
Le impronte digitali, insieme ai segni che s’intrecciano in una complessa struttura arteriosa, di membrane e tessuti sotto pelle, rimandano all’idea di una percezione acuta del proprio corpo. Un tale sentire da potersi elevare in un più vasto apparato d’origine naturale che include tutti. In questo lungo viaggio, che hai intrapreso dall’interno dell’individuo e dell’io, cosa stai cercando e cosa ti interessa in particolare?
Mi interessa l’incontro con l’altro, l’empatia e il viaggio implicito per colmare le distanze, attraverso un linguaggio che consideri la fusione quanto la separazione, che appartenga al singolo quanto al collettivo. L’altro, nel mio lavoro, è tanto uomo quanto ambiente naturale. Il viaggio è un percorso che nasce sotto pelle ma si estende fino a terre lontane.
Il tema della migrazione è presente nel tuo lavoro non dal punto di vista politico, quanto più sociale e psicologico. In che modo senti questo argomento?
In mostra ci sono diversi quadri che riflettono sulla migrazione, sul portarsi dietro l’esperienza personale e culturale che si fonde inevitabilmente con quello che ancora non si conosce e ci aspetta dall’altra parte. Mi interessa affrontare temi contemporanei che hanno radici lontane nella storia dell’uomo, riflettere su storie che si ripetono e in cui ognuno di noi potrebbe essere il protagonista. Preferisco soggetti universali così che l’opera cambi e viva sotto gli occhi dell’esperienza dell’osservatore.
Questo argomento è legato alla tua esperienza: sei andata via e hai affrontato le fasi di un’integrazione.
Certo, il vissuto mi ha aiutato a maturare una sensibilità e un linguaggio ma come vedi non parlo mai della mia esperienza personale. I temi che affronto appartengono all’uomo e alle sue relazioni, al passare del tempo e all’accumularsi di tracce… Come quelle delle impronte e delle matite sulla superficie delle mie tele.
Another Country è il murale cui stai lavorando nella Collezione Maramotti. È la prima volta che fai un lavoro di questo tipo, site specific. Di cosa si tratta?
Another Country è il titolo di un libro di James Baldwin che credo si riferisse al desiderio di vivere in un luogo utopico in cui le differenze sessuali ed etniche potessero essere ridefinite o magari non definite per niente. Another Country si riferisce anche al cambiamento della nostra mappa interiore dopo un lungo percorso. Ma Another Country potrebbe anche essere chi ci sta vicino.
‒ Domenico Russo
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