Marino Marini fra arcaismo e contemporaneo. A Pistoia
Palazzo Fabroni, Pistoia ‒ fino al 7 gennaio 2018. La cittadina toscana omaggia il suo artista più celebre con un’approfondita mostra di studio, che contestualizza la sua opera scultorea all’interno delle vicende creative del Novecento, sfatando il mito di un artista al di fuori della storia dell’arte. A cura di Barbara Cinelli a Flavio Fergonzi, “Marino Marini. Passioni visive”, è una mostra che già dal titolo palesa la sua ottica, ovvero quella forza con cui elabora un proprio linguaggio personale che gli nasce da dentro, una “passione”, appunto, che fa di lui un impetuoso “poeta della forma”.
La toscanità, per Marino Marini (Pistoia, 1901 ‒ Viareggio, 1980) fu un bagaglio culturale che comprendeva gli Etruschi, i Primitivi, il Rinascimento; fasi storiche fondamentali, ma che da sole non bastavano ad appagare il suo impeto creativo del dare forma alla materia. Esordì all’insegna dell’arcaismo, quasi a voler scavare nella parca personalità dei toscani, che trova in certa scultura la sua traduzione figurativa. Le sue figure degli Anni Venti rimandano poeticamente alla statuaria etrusca, così come alla severità del primo Rinascimento; il confronto con Verrocchio e i reperti di Chiusi (reso possibile dagli importanti prestiti che arricchiscono la mostra), dimostra l’attenzione per il passato, nel clima del “ritorno all’ordine” predicato da Ardengo Soffici. Marini combina la sintesi astratta con il dettaglio di realtà, costruendo figure caratterizzate da una leggerezza senza tempo, tanta è l’adesione al topos umano, da renderle universalmente moderne.
GLI ANNI TRENTA, FRA GOTICO E NUDO VIRILE
Da sempre, in scultura, il nudo virile è un tema con cui è necessario misurarsi; Marini attinge dall’iconografia romana degli atleti colti in momenti di riposo. Il suo Pugile (1935) non può non richiamare il bronzo conservato al Museo Nazionale Romano. Marini, però, scolpisce il legno, la cui violenta spigolosità si sostituisce alla morbidezza della fusione; spigolosità che però non scalfisce la naturalezza della forma, quell’anima antropomorfa che sempre contraddistingue le sue opere. Evolvendo dall’arcaismo etrusco, la statua si arricchisce di realistici particolari anatomici, un po’ come era accaduto per il Tobiolo (1933) di Alfredo Martini. Affascinante il dialogo fra le due opere, che sembrano interrogarsi e rispondersi a colpi di muscolature tese, il minimalismo dei dettagli, la “brutalità” dell’astrattismo dei volumi.
In questi anni la scultura di Marini acquista una nuova drammaticità, ispirata alla severità della scultura gotica, attentamente studiata nella cattedrale di Bamberga che visitò in questi anni. Nascono opere caratterizzate da una antinaturale rigidità, e dal minimalismo dei volumi che un po’ ricorda il Cubismo sintetico.
UN ARTISTA EUROPEO E NON SOLO
Gli Anni Trenta formarono definitivamente la coscienza europea di Marini, che soggiornando a Parigi ebbe modo di conoscere Picasso, de Chirico, Kandinsky, e di ammirare le sculture di Rodin. Nella celeberrima serie delle Pomone della fine degli Anni Trenta, dà la misura del suo rinnovamento scultoreo, destabilizzando il concetto di volume, riposizionando i piani orizzontali, in controtendenza con l’andamento della forma originale. Viene da chiedersi se si tratti di puri volumi sotto forma di corpo femminile, o se, al contrario, è il corpo femminile a essere incastonato nella volumetria. In queste opere, Rodin aleggia, ingentilito però attraverso la lezione di Auguste Maillol o dell’italiano Ernesto De Fiori. E ancora, nel ritratto scultoreo, Marini dà prova di versatilità, assorbendo sia il Rinascimento italiano sia il gusto per la caricatura di Honoré Daumier, a sua volta ispiratosi a William Hogarth. Se il Ritratto di Fausto Melotti (1937) possiede la solennità del busto di un umanista o di un cardinale del Quattrocento, quelli di Stravinskij, Valentin e Faber rimandano a Daumier, di cui Marini era uno dei pochi in Italia a possedere un catalogo, e quindi in grado di studiare l’espressività di maschera dei suoi volti.
Anche il secondo dopoguerra fu una stagione proficua e, al pari di Picasso, Marini seppe trarre ispirazioni che sempre rielaborò con un suo stile personale, dimostrandosi artista fortemente calato nel clima contemporaneo e al tempo stesso portatore della tradizione colta dell’arcaismo e del classicismo. Un linguaggio che nel tempo lo fece conoscere e apprezzare in tutto il mondo, e godere della stima di colleghi quali De Pisis, Moore e Miró, ma anche di personaggi come Peggy Guggenheim, che acquistò diverse sue opere.
‒ Niccolò Lucarelli
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