L’arte contemporanea all’epoca dei selfie
Quella del selfie è senza dubbio una delle pratiche più diffuse del nostro tempo. Ma come ha influenzato l’arte contemporanea? È un fenomeno da demonizzare o da cavalcare?
Tra i fenomeni che caratterizzano l’era contemporanea, permeata di dispositivi elettronici che – almeno negli ultimi decenni – hanno trasformato radicalmente la sfera interpersonale, il selfie rappresenta il rischio di una sempre più avvertita vetrinizzazione dell’uomo, definitivamente risucchiato in un processo di spettacolarizzazione degli individui e della società. Dalla valorizzazione del prodotto innescata con la nascita della vetrina settecentesca si è passati gradualmente a una venefica ostentazione della intimsphäre e a dannose proairesi collettive che puntano l’indice sull’apparire a discapito del pensare, del riflettere, dell’indagare le cause di una perdita inconsolabile, quella della privatezza (privacy), ormai definitivamente eclissata dalla echo boomers generation, dall’utilizzo costante di fotocamere digitali compatte incluse in smartphone e tablet. Gli affetti, la sessualità, il corpo (quante le immagini quotidianamente condivise sui social network dalla millennial generation), l’attività sportiva, i media, il tempo libero, i luoghi del consumo, gli spazi urbani e persino le pratiche relative alla morte – come non ricordare i Conformisti e le Irritazioni di Gillo Dorfles? – sono diventate luoghi di dominio pubblico, spazi estroflessi dal proprio perimetro protettivo e catapultati, senza alcuna cintura di sicurezza, nel moskenesstraumen dell’esibizionismo.
Se è vero che la cultura dell’autoscatto nata con i reality show (nel 2004 Francesco Vezzoli, con i suoi Comizi di Non Amore, ha elegantemente informato che “il cinema-verità degli Anni Sessanta”, quello di Pasolini appunto, “si traduce nel Grande Fratello degli Anni Novanta”), che porta la popolazione tecnoliquida a raccontarsi e a esibire costantemente il proprio vissuto, rappresenta un rischio allarmante e crescente, è pur vero che nel campo dell’arte si fa pratica diffusa: indagine di un’atmosfera, impegno sociale o mero self-branding e naturalmente personal storytelling. L’artista assume infatti questa scoraggiante compagine sociale per promuovere il proprio lavoro o, d’altro canto, per disegnare una strategia investigativa, fornendo risposte, utilizzando il sistema del selfie per mostrare la scelleratezza, la catastrofe, la castrazione comunitaria.
DA VACCARI A CINDY SHERMAN
Già nel 1972 Franco Vaccari presentava alla XXXVI Biennale d’Arte di Venezia l’opera Esposizione in Tempo Reale n° 4, dove una scritta sul muro – Lascia su queste pareti una traccia fotografica del tuo passaggio – invitava i visitatori a rendersi parte della mostra e a creare mediante una Photomatic un discorso collettivo. Tuttavia il fenomeno si acuisce in questo primo ventennio del XXI secolo con declinazioni che trasformano l’artista in un “selfista”. Al 2013 risale, ad esempio, National #Selfie Portrait Gallery, progetto ideato e curato Marina Galperina e Kyle Chayka per la Moving Image Art di Londra che raggruppava brevissimi video realizzati, per l’occasione, da diciassette artisti internazionali: Anthony Antonellis, Kim Asendorf & Ole Fach, Jennifer Catron & Paul Outlaw, Jesse Darling, Jennifer Chan, Petra Cortright, Leslie Kulesh, Yung Jake, Rollin Leonard, Jayson Musson, Alexander Porter, Bunny Rogers, Carlos Sáez, Daniel Swan, Angela Washko, Addie Wagenknecht e Saoirse Wall. “Il progetto rappresenta un meta-commento sul self-brading nell’era digitale. I selfie non sono sempre arte, ma queste opere d’arte sono sicuramente dei selfie”, ebbero a dire i due curatori in un’intervista rilasciata a Erin Cunningham de The Daily Beast.
Notevole è, nell’ambito di una ricerca dedicata al genere y (quello della generazione y, appunto), il progetto Selfies and the New Photography. 50 Artists/50 Selfies: open call lanciata da Patrick Lichty (artista, curatore e ricercatore nell’ambito della percezione multimediale) nel 2014, o quello organizzato a Milano nello stesso anno dal PhotoFestival che, con la mostra City Mobility, ha dedicato un focus alla galassia della selfiemania.
Con From Selfie to Self-Expression (2017), la Saatchi Gallery di Londra disegna dal canto suo un itinerario del mondo del ritratto – in mostra opere di vari artisti, tra cui van Gogh, Velázquez, Frida Khalo, Tracey Emin, Cindy Sherman e Kutluğ Ataman – per ricordare non solo un genere antico ma anche e soprattutto per esplorare il potenziale creativo degli autoscatti contemporanei. “Negli ultimi cinque secoli gli esseri umani sono stati ossessionati dal creare immagini di se stessi e condividerle”, ha avvertito Nigel Hurst, curatore della mostra. “L’unica cosa che è cambiata oggi è il modo in cui lo facciamo”. Accanto alla mostra, di notevole interesse è stato il concorso internazionale denominato #SaatchiSelfie, che ha offerto la possibilità di partecipare – e i partecipanti sono stati invitati a “esprimersi esplorando e promuovendo oggi il potenziale creativo del selfie” – a un fenomeno (culturale?) dalla portata mondiale, i cui esiti ultimi sono ancora da scrivere.
‒ Antonello Tolve
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #40
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