Storia, politica e curatela. Alla Fondazione Prada di Milano
“Post Zang Tumb Tuuum” alla Fondazione Prada di Milano non è un’esplosione, ma una silenziosa dichiarazione d’amore per i materiali d’archivio e un nuovo modo di concepire la curatela di una mostra.
Zang Tumb Tumb. Parole in libertà usate da Marinetti per descrivere le bombe che assediarono Adrianopoli nel 1912, in quel poemetto che stravolse le regole della sintassi, della tipografia e del fare arte tout court. A più di cento anni di distanza Germano Celant ne prende in prestito l’effetto onomatopeico per raccontare alla Fondazione Prada di Milano la connessione fra arte e politica in Italia tra il 1918 e il 1943, dai primi germi alla caduta del fascismo.
Del caos marinettiano, tuttavia, non vi è traccia. Esteticamente impeccabili e rigorose, le sale si susseguono in un percorso silenzioso e coerente, che investe quasi tutti gli spazi della Fondazione, dove vige un’unica dittatura: quella del documento. Due anni di intenso lavoro restituiscono al pubblico più di ottocento testimonianze fra lettere, fotografie e pubblicazioni, oltre alle seicento opere provenienti da musei e collezioni private internazionali. L’imponente macchina da prestiti Celant-Prada le ha scomodate per ricordarci che l’espressione artistica non può prescindere dal contesto storico, sociale e culturale in cui prende vita.
FOTOGRAFIE E TESTIMONIANZE
Sono dunque le fotografie a dettare il percorso espositivo, che ammette solo opere di cui esistano testimonianze dei momenti in cui furono mostrate. Tale principio concede talvolta dei fuoripista rispetto alla cronologia. Allo stupore per non aver incontrato Boccioni nelle prime stanze, ecco rispondere il Dinamismo di un foot-baller (1913), affiancato ai Casorati esposti a Pittsburgh (1937) e i de Chirico di Fantastic Art Dada and Surrealism (1936). Come mai? La tela, che era di proprietà di Marinetti, compare per la prima volta in un divertente siparietto da lui inscenato e fotografato nel 1934 nella sua stessa sala da pranzo.
E ancora, sono le fotografie delle grandi mostre dell’epoca riprodotte in scala reale a trasformare la visita in un’esperienza immersiva, che mescola le opere in prestito alle ricostruzioni e risulta assai più potente di ogni moderna artist-experience digitale.
Si entra così nel salotto di Léonce Rosenberg per ammirare i Gladiatori di de Chirico, ci si scopre senza fiato di fronte ai Morandi esposti a Berlino nel 1921, si ritrova Wildt alla Biennale del 1922 e poi nel 1926, con il magniloquente Pio XI che arriva dai Vaticani, si riscopre Scipione grazie all’allestimento di Albini del 1941 per la mostra commemorativa alla Pinacoteca di Brera. Si procede come passeggiando fra le pagine di un vecchio catalogo in bianco e nero, se ne percepisce la patina.
CURATELA E DOCUMENTAZIONE
L’esperienza diviene totalizzante negli spazi del Deposito, dove su otto altissimi schermi incombono le immagini sovradimensionate della Mostra del Decennale della Rivoluzione Fascista (1932). Che Celant desideri aprire una nuova era della pratica curatoriale, in cui il critico fa un passo indietro e lascia la parola ai documenti? Esiste il rischio che l’esperienza si limiti a un’elegante e superficiale pattinata sul ghiaccio, senza scavare nelle viscere della storia, senza un aiuto alla lettura. Ma, nel contempo, al visitatore viene concessa la libertà di creare connessioni e soffermarsi sui dettagli meno scontati, perdendosi fra l’epistolario Sarfatti-Piacentini sulla carta intestata di “Gerarchia” o fra i report del Ministero dell’Interno a proposito del mancato schieramento di artisti e intellettuali a favore del regime. Riscoprendo così il valore dell’archivio.
‒ Silvia Somaschini
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