L’anno d’oro di Rä di Martino tra Milano, Londra e Roma. L’intervista
L’artista ha appena ricevuto il Premio Acacia, nell’ambito della settimana dell’arte di Milano e sta per inaugurare una sua mostra alla Galleria Valentina Bonomo di Roma. L’abbiamo incontrata e ci ha anticipato qualcosa sui suoi nuovi progetti.
Ha appena ricevuto a Milano il Premio Acacia, Rä di Martino (Roma, 1975). L’edizione 2018 del Premio, nato 15 anni fa, ha scelto l’artista con il video Copies récentes du paysages ancienne/ Petite histoire des plateaux abandonnès (2012) e l’opera fotografica The Sun or an Electric Light # 7 (2017). Entrambe entrano nella collezione ACACIA donata al Museo del Novecento che mette entrambe in mostra, fino al 10 giugno, insieme alla scultura di recente creazione The Sun or an Electric Light (Eureka Palm) (2017). Nel frattempo il 18 aprile, con la presentazione di Peter Benson Miller, direttore artistico dell’American Academy in Rome, dove l’artista è attualmente in residenza, e la collaborazione di Nicole Mathysen-Gerst, la di Martino sta per inaugurare una personale alla galleria Valentina Bonomo al Portico d’Ottavia e si sta impegnando in una serie di nuovi progetti. Ce li siamo fatti raccontare da lei in questa intervista.
Un progetto a Londra, il Premio Acacia a Milano, la Fellowship alla Accademia americana di Roma: come si differenziano tutti questi progetti l’uno dall’altro?
In effetti si tratta di esperienze anche abbastanza diverse che si sono unite negli stessi mesi. Sicuramente la fellowship all’American Academy mi è di grande aiuto perché ho uno studio bellissimo e la calma necessaria per concentrarmi. Per quanto riguarda la mostra di Londra sono stata felice di una nuova opportunità di presentare il mio video “Poor Poor Jerry” (2017) realizzato l’anno scorso, e presentato fino ad ora solo a Milano da Marsélleria.
Il premio ACACIA è stato di grande supporto ed è molto bello sapere di avere due opere in collezione al Museo del Novecento e in esposizione. È un museo visitatissimo e il video Petite Historie du plateaux abbandonnèes (2013) è uno dei miei preferiti quindi sono contenta che sia in collezione.
Hai anche una mostra in arrivo alla galleria Valentina Bonomo di Roma: che tipo di lavori presenterai?
Una serie di lavori che nascono dalla rielaborazione di foto d’archivio che si trasformano in qualcosa di diverso, sia come formato che come contenuto. Nella serie Play House (2018) ho rielaborato delle fotografie di coloni americani che andavano verso il West per trovare un pezzo di terra e costruirci la loro casa alla fine dell’Ottocento. Queste foto mi sono sempre piaciute perché hanno qualcosa di molto naïve nella composizione: la casetta sulla collina con la famiglia o la persona che l’ha costruita, davanti, in piedi, ricordano i disegni che fanno i bambini. Mischiando queste fotografie ad altre creo una terza immagine da cui realizzo poi dei negativi per poter ristampare le fotografie in camera oscura. Così ritornano ad essere oggetto fotografico come erano originariamente ma con una composizione diversa e più astratta. Lo stesso processo avviene per la serie Open Trees (2014-2018), in cui rielaboro foto di alberi prese da diverse fonti, come archivi storici o giornali ad esempio.
E i video?
L’installazione video è a doppio canale e si chiama Untitled (Piper) (2018). Parto da un progetto di ricerca per cui sto sviluppando un documentario commissionatomi da Paola Nicolin con Classroom insieme al Centro di restauro di Venaria Reale e ad Artissima sulla famosa discoteca Piper di Torino che fu attiva dal 1967 al 1969. Di questa esperienza rimangono quasi solo foto d’archivio e nascono così questa serie di lavori video in cui ricreo dei tableaux vivants delle foto stesse, ma con un movimento lentissimo. In un certo senso cerco di far diventare più vive o più tridimensionali le immagini storiche.
Di recente sei stata al Festival del Cinema di Venezia con un film: come è cambiata la tua forma mentis (e il tuo modo di lavorare) nel momento in cui ti sei avvicinata al mezzo cinematografico (in questa e altre occasioni)?
L’anno scorso abbiamo presentato CONTROFIGURA, il mio primo lungometraggio al festival, dove però nel 2014 avevo anche presentato The Show MAS Go on un documentario mediometraggio sui magazzini MAS di Roma. Da vari anni cerco di aprirmi a forme più narrative e di avere un’interazione anche con il cinema. Parliamo sempre di film in un certo senso d’artista che sono ibridi tra documentario, fiction e arte per cui per me è uno sviluppo naturale delle cose e sicuramente mi da più energia e più spunti.
Come ti vedi nel futuro? Quali nuove sfide ti piacerebbe affrontare?
A parte il progetto sul Piper che sarà pronto prima dell’estate, sto cercando di fare un nuovo film/documentario su alcuni aspetti di Roma, città nella quale sono appena tornata a vivere dopo vent’anni di assenza. Allo stesso tempo mi piacerebbe provare a sviluppare un film più narrativo. Sto anche aiutando in veste di produttrice Paolo Luca Barbieri (Alterazioni Video) a produrre un suo film lungo in India. Dopo questo ciclo di mostre primaverili spero di stare ferma qualche mese e far vedere questi nuovi lavori in più sedi e città.
– Santa Nastro
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