Oltre le regole. Intervista a Gianfranco Baruchello
Parola all’artista livornese classe 1924 cui il Mart di Rovereto dedica la più ampia retrospettiva mai realizzata. Oltre trecento opere nel solco di una carriera memorabile.
La più ampia rassegna mai dedicata a Gianfranco Baruchello (Livorno, 1924) si offre al visitatore come una mappa micrografica, aperta sull’infinitamente piccolo e sull’incommensurabilmente grande. Con circa trecento opere in mostra, il Mart di Rovereto descrive le vicende creative di un uomo che ha reso la storia dell’arte contemporanea un palcoscenico sperimentale annunciato.
Nonostante Marcel Duchamp, Jean-François Lyotard, Alain Jouffroy e Italo Calvino abbiano accompagnato il suo percorso, come maestri profondi, ma latenti, la mostra esplora tecniche, supporti, sguardi di sguardi, soggetti sperimentali, materiali pittorici e limiti del segno con una naturalezza tale da rendere le oltre trecento opere esposte un alveare di simboli. Un nugolo dell’immaginario che, dalle sculture su carta ai dipinti al cinema d’avanguardia, si insinua nella parola attraverso proiezioni a terra come L’Archivio ci Guarda (1975-2018), o Acrobata Clandestino (1988) – architettonico trittico acquisito dal Mart in occasione della retrospettiva. E mentre il Fiume (1982-83) viene lasciato scorrere per la prima volta, lungo un’unica parete, per oltre quindici metri di lunghezza, Gianfranco Baruchello offre lo spettacolo di una de-saturazione tecnica della pittura, per compiere, invece, un ritorno con un nuovo punto di vista teorico e nuove soglie fra generi.
In questo senso, nel lavoro di Baruchello, nessun limite deve contenere, ma deve risultare una costruzione intenzionale, pienamente immersa nella propria coscienza storica, designando un piano di consistenza dove le cose trovano appoggio. Perché “ogni opera deve rinunciare a dire”, sostiene l’artista, “a favore del primo pensiero del visitatore: quella sarà la lettura più giusta per il lavoro”.
L’INTERVISTA
Se dovesse esistere un grande maestro, chi potrebbe essere o essere stato?
Forse stiamo per parlare di Marcel Duchamp, e forse molto evidentemente. Ma oggi non esiste più l’idea di un grande maestro, perché il commercio delle opere ha travolto il giudizio del nome. Si presentano personaggi che di solito fanno capolino a Venezia, per le Biennali, con opere gigantesche, fantastiche e nauseanti solo a vederle. Si presentano artisti inglesi, americani tutti bravissimi e importantissimi che sembrano fuoriusciti da una sorta di lunga preparazione teatrale, un riscaldamento dell’artista che precede qualsiasi produzione dell’opera e questo processo falsa completamente interessi, opinioni, approfondimenti da parte di qualsiasi pubblico. L’arte è diventata esibizione palese. A mio modo di vedere gli unici maestri sopravvissuti non si trovano nel mondo dell’arte, ma in quello della letteratura, nella narrativa, nel cinema, nel teatro.
E la pittura, dove si riesce ancora a trovare?
Oggi la pittura rimane modesta, fra le cose del mondo, ed è diventata così rara che ha dovuto darsi delle regole, tanto per l’eccezionalità quanto per i suoi lati più debordanti, oltre i quali torna a essere stucchevole. In Cina ci sono movimenti di artisti che mangiano i cadaveri, ma anche se sembra un atto ripugnante viene giustificato dall’arte e anche qui sembra non esserci limite. La morale non sembra più avere a che fare con le soglie della produzione artistica. Nulla sembra più avere a che fare con essa. Tutto sembra soggettivo e personale. Io ritengo che per saper pensare, o ripensare la pittura si debba formarsi e informarsi. Succedono un sacco di cose nel mondo. Esiste prima di tutto, e continua a farlo, la filosofia, anche se sembra essere rimasta arretrata. Un tempo si presupponeva di poter definire a parole gesti insensati che rasentano e sconfinano nel sogno. Ma all’immaginazione non si può dar legge, nemmeno la psicoanalisi ci è riuscita. La fantasia deve rimanere ancora una fiaba, un racconto sconnesso. Perché tutto quello che non ha regole funziona meglio di tutto quel che le ammette.
Quali regole?
Le regole se le deve costruire l’uomo per i fatti propri. Amo questo e me lo tengo stretto? Allora lo preservo per me stesso e se esiste un’altra persona che ha il mio stesso oggetto d’amore allora vorrà dire che diventeremo amici. Tutto qua.
Esiste, nella sua vita, un incontro che l’ha segnata profondamente?
È stato l’incontro con una generazione, dopo che sono tornato vivo e ho assistito alla sconfitta dell’esercito italiano in Russia. Una rovina per l’Italia, quasi quanto il fascismo, una rotta che ha visto scomparire quella cultura imbecille di cui la mia famiglia ha fatto parte, è stato drammatico. Ricostruire una storia quando la tua famiglia esce da una vicenda così personale, questo è stato doloroso per me. Erano bravissima gente: mia madre era una maestra, che addirittura mi faceva pregare per Mussolini; mio padre aveva fatto la guerra, era carico di medaglie, era un Alpino e aveva conquistato la Marmolada. Ma io ho dovuto rifiutare tutto questo, anche se da bambino mi ci avevano pure portato sulla Marmolada [sorride, N. d. R.].
Quale tipo di ordinamento è stato dato alla sequenza delle opere? Esiste una serialità o una classificazione possibile?
La scelta dei lavori è stata affrontata davvero molto bene da Maraniello. La selezione è stata fatta in base a un perfetto dialogo tra le proporzioni dei lavori e le dimensioni degli spazi. Da sottolineare inoltre anche il personale, giovanissimo, che ha lavorato come a teatro, in perfetta sincronia. Non ho mai trovato una preparazione simile fra gli allestitori.
Ci sono stati lavori, come L’Archivio ci Guarda che abbiamo riproposto nuovamente, perché gli spazi e l’allestimento lo consentivano, offrendo un altro ordinamento a materiale che ho raccolto negli anni. Iconografie esposte in un gruppo singolo e in un gruppo plurimo, fotografie che offrono l’opportunità di girarci attorno e di pensare alle immagini stesse.
Come mai iniziare la mostra con una ricerca di attenzione, un memento nei confronti del veleno, del pericolo (Piante velenose, Pericolo!, 2009)?
Le piante sono velenose per conservare la loro bellezza, affinché nessuno le mangi. Per fortuna le piante più belle sono velenose, altrimenti le si mangerebbero come fossero insalata. Le cose da mangiare te le mangi e le cose da vedere le osservi soltanto, non vanno toccate. Il veleno salva la bellezza e la continuità nell’arte, entrambe devono rimanere intatte, questa è la dichiarazione di poetica. Anche io non voglio essere toccato, non solo perché sono bello, ma perché sono vivo!
Quando si parla del destino si fa sempre riferimento a un disegno, e questo sembra aderire alla perfezione all’Incerto, come ricerca della rappresentazione, a un futuro che fa riferimento al proprio immaginario. Secondo lei è possibile?
No, magari, metterei su un banco per vedere un disegno così come si venderebbe un destino, anche se forse non chiederei soldi per allungare o per modificare la vita delle persone. No, non esiste. Rappresentare è sempre un problema personale, difatti anche questa mostra espone disegni che sono stati fatti vedere al pubblico per la prima volta, che sono sempre rimasti chiusi e nascosti in venti cassetti diversi della Fondazione. È un atto di coraggio, ma mi è piaciuto moltissimo.
In ultimo, che cosa dimenticare e che cosa ricordare di questa mostra?
L’invito a ricordare e l’invito a dimenticare, perché non appena si cerca l’oblio affiora il ricordo di quello che si credeva perso, e arriva il momento di lasciarlo andare per davvero.
‒ Ginevra Bria
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