Sesso con le piante dell’artista Zheng Bo durante Manifesta. Scandalo a Palermo
L’opera di un artista cinese fa esplodere un dibattito accesissimo a Palermo. Chi chiede la rimozione, chi minaccia denunce, chi si scandalizza, chi inorridisce, chi si preoccupa dei bambini. Tutto molto esagerato. Un’occasione per discutere di spazio pubblico, di provocazioni estetiche, di censura e dei soliti giudizi arbitrari sull’arte contemporanea…
Che scoppiasse la polemica era nell’ordine delle cose; prevedibile sì, ma con la speranza che la faccenda non degenerasse in una bagarre incontrollata, traboccante di luoghi comuni. È invece, a Palermo, è toccato sorbirsi il solito barbosissimo teatro del pregiudizio sull’arte contemporanea, al gusto di perbenismo e di moralismo polveroso.
Il casus belli è il video dell’artista cinese Zheng Bo, installato all’Orto Botanico all’interno del percorso di Manifesta. Uno schermo installato tra gli arbusti, proprio in uno degli snodi principali dello splendido giardino cittadino, tra i più apprezzati d’Europa.
SESSO CON LE PIANTE. TRA POLITICA E INDAGINE ECO-QUEER
L’opera si chiama “Pteridophilia” ed esplora “il tema eco-queer e le sue potenzialità”, ovvero il campo di ricerca che connota il lavoro di Bo: studiare le dinamiche sociali attuali, “dalle prospettive delle comunità emarginate e delle piante spontanee”. Ecologia, cultura queer, marginalità ed eccentricità, e dunque processi di affermazione identitaria delle minoranze (culturali, etniche, di genere, etc.), assimilabili alla condizione di certi vegetali selvatici. In questo caso protagoniste sono le “Pteridofite”, ovvero le comuni felci, piante molto popolari a Taiwan, considerate poco pregiate dai colonizzatori giapponesi. La valenza politica del soggetto è già tutta in queste righe.
Ma il fuoco della polemica sta altrove: il video, ambientato in una foresta taiwanese, restituisce momenti di effusioni erotiche tra alcuni giovani e – per l’appunto – alcune specie di felci. Racconto per immagini (e gemiti) di uno strano rapporto intimo uomo-pianta: l’eccitazione arriva dal contatto con foglie, terra e radici, mentre la telecamera riprende da vicino, senza mai indugiare sugli organi sessuali ma descrivendo tutto lo slancio e il trasporto dei lascivi abbracci. Ed è un erotismo fatto di lentezza, di perversione tattile e contemplativa, di territori erogeni laterali: una sorta di immersione panica dannunziana, con evicazioni mitologiche, in una chiave tecno-erotica molto spinta.
LA QUESTIONE MORALE
Lo scandalo, manco a dirlo, è scoppiato per via della componente sessuale. Pochi coloro che hanno davvero visto l’opera, moltissimi i detrattori scagliatisi a priori contro una simile forma d’arte “degenerata”, intitolata – dicono – al pessimo gusto: guardare un tizio che fa sesso con una pianta sarebbe l’ennesimo affronto della “cosiddetta arte contemporanea”, nemica di ogni limite morale e non più interessata alla poesia delle forme pure. Che fine ha fatto la sacrosanta supremazia del bello, del piacevole, del pittoresco? Che ne è di quell’arte che accarezza e rassicura, favorendo l’accesso facile al significato e la catarsi di una sana compartecipazione emotiva? Per i tanti indignati che hanno preso la parola sui social, il video della discordia è la solita “porcheria” senza contenuto, senza bellezza, costruita ad hoc per creare scandalo.
L’opera non è un capolavoro, figurarsi. Non è nemmeno particolarmente incisiva o innovativa. Come non lo sono le altre esposte a Manifesta e le infinite quantità che ogni giorno si incontrano tra musei, biennali, gallerie. Alcune buone, sufficienti, interessanti, affascinanti, altre deboli o mediocri, perfettamente compiute o non del tutto riuscite, capaci di dividere e di far parlare di sé, conquistando certuni e deludendo altri; comunque firmate e vagliate da professionisti. Tutto normale. La produzione contemporanea vive di ricerca, di sperimentazione, di tentativi, in attesa che il filtro della critica e del sistema scriva – non senza errori e omissioni – le pagine della storia dell’arte di domani.
Eppure, nel caso di Manifesta, si parla solo del video di Zheng Bo. Parecchi, nella premura di scrollarsi di dosso l’accusa di bigottismo, hanno insistito sul fallimento di un’opera giudicata brutta, volgare, pretestuosa, inutile. Vale solo per il video in questione? Niente da dire sulla qualità di altri progetti esposti? Risposta scontata: il tema resta quello del pudore, della morale, del sesso, della perversione. Vero detonatore di questo piccolo, stucchevole scandalo di mezza estate.
FRA TUTTOLOGI E CENSORI
Che l’arte possa generare scandalo tra i contemporanei è cosa antica e pure normale. Arte che vive al presente anche e soprattutto per innovare, per spostare il punto d’osservazione comune. Il che implica, non di rado, l’esito provocatorio, la cancellazione di riferimenti noti, il rifiuto di rassicurazioni etiche ed estetiche. Il pubblico generico quasi mai ha strumenti adeguati per accettare ciò che devia dalla norma, che ribalta, che rimette radicalmente in discussione le forme del mondo e i codici sociali. E senza scomodare certi grandi pionieri colpiti da censure, disprezzo, riluttanza o insofferenza di critica e di pubblico – da Monet a Pasolini, passando per Artaud, Genet, Duchamp – il principio rimane lo stesso: ciò che è distante dai propri parametri diventa abusivo, indegno, censurabile.
Ma davvero, ogni santa volta, dinanzi a un artista che destabilizza, deve partire il loop dei giudizi sommari sulla legittimità dell’opera e il valore dell’autore? Appellarsi al semplice gusto personale evidentemente non appaga.
Che il perfetto signor X non consideri “arte” qualcosa che il sistema – ovvero il mercato, i musei, i critici, gli storici, i curatori – hanno invece definito tale, filtrando, valutando, rischiando, generando processi di selezione e storicizzazione, è interessante quanto il parere della ‘sora Lella’ sui vaccini. Una cifra prossima alla zero. Eppure i pulpiti si moltiplicano, i giudizi si fanno tranchant, gli esperti tuttologi pullulano fra Twitter e Facebook, e l’arte diventa un fatto totalmente soggettivo (enorme sciocchezza), la cui veridicità viene attestata dal fornaio come dall’ingegnere idraulico, dalla casalinga di Voghera come dall’operaio.
Il dibattito esploso a Palermo, decisamente sopra le righe, a volte montato ad hoc per fini politici, si è nutrito di critiche aspre (spesso lecite), ma è sfociato anche in richieste più o meno palesi di censura. Togliete quel video, per carità: i bambini ci guardano! E sono sempre i bambini a fungere da scudo, un po’ come durante le sfilate del Pride. I bambini, quelli che di impalcature morali e preconcetti ne hanno pochissimi, se non nessuno.
PROVOCAZIONI NELLO SPAZIO PUBBLICO
Centrale in realtà è stata in questo caso la questione della location. L’opera “perversa” è installata nel mezzo di un sontuoso giardino, visitato tutti i giorni da famiglie e scolaresche. Da qui lo scandalo. Posta in questi termini, e mondata da accuse d’immoralità, giudizi talebani, frasi sprezzanti e invocazioni censorie, la faccenda può avere senso. Quanto e come lo spazio pubblico deve accogliere immagini che turbano l’equilibrio, che non sono rassicuranti, che non rispondono alla classica categoria del bello? Il tema esiste.
Ora, posto che la ‘bellezza’ non è più da lungo tempo un’esclusiva categoria della produzione artistica, posto che anche il mostruoso, l’osceno, il sinistro, il perturbante, l’alieno, il sotterraneo, sono territori d’elezione dell’arte, non è superfluo domandarsi fino a che punto si possa impattare sui luoghi collettivi, costringendo chiunque all’incontro con un’opera disturbante. Una questione di accorgimenti, di tempi e di maniere: un lavoro temporaneo, accompagnato da adeguate segnalazioni, supportato da spiegazioni e contestualizzato con criterio, ha piena facoltà di modificare il volto di un luogo e l’esperienza di chi vi transita. Un lavoro, soprattutto, la cui qualità sia garantita da chi ha la responsabilità scientifica del progetto: in questo caso i curatori di Manifesta, tutti studiosi riconosciuti a livello internazionale.
Il direttore dell’Orto Botanico di Palermo, Rosario Schicchi, aveva provveduto ad apporre specifici cartelli. Ma evidentemente non è bastato. Ed ecco, al margine del lungo dibattito, la risposta dell’Assessore alla Cultura del Comune di Palermo, Andrea Cusumano, affidata al suo profilo Facebook. Prima di essere un amministratore pubblico, Cusumano è stato (ed è) un artista e un compositore, per anni al fianco di Herman Nitch. Fu lui, nel 2014, a portare a Palermo la grande retrospettiva del maestro austriaco, resistendo alle feroci polemiche esplose in città su istigazione di alcuni gruppi animalisti. La mostra – per altro bellissima – non saltò, e lo scandalo si spense subito dopo l’opening.
Un post equilibrato, quello dell’Assessore: “Credo che arte e buon gusto non siano sinonimi e certamente vadano tenuti separati”, scrive. “(…) ritengo che si debba tutelare l’assoluta ed inderogabile autonomia dei curatori nella scelta degli artisti, poi dell’artista nella realizzazione dell’opera, ed infine esprimere indisponibilità a qualsivoglia forma di censura”. E aggiunge: “Detto ciò è opportuno produrre tutte le dovute cautele onde prevenire che minori possano essere coinvolti nella visione dell’opera ed il pubblico, diversamente, possa essere adeguatamente informato sul contenuto prima di potervi accedere. Misure in vero già messe in campo dagli organizzatori di Manifesta ma che possono senz’altro essere maggiorate”. E così chiude: “Altra cosa è però cercare motivazioni politiche o addirittura legali, per mettere il bavaglio agli artisti o alle iniziative culturali che si ritengono sgradevoli. (…) Parrebbe anomalo che un rispettato artista cinese debba venire in Italia per essere censurato”.
Un cinese a rischio censura in Italia? Se non fosse inquietante, farebbe sorridere. Le parole di Cusumano mettono forse la parola fine a questa rovente vicenda, porgendo attenzione alle perplessità dei cittadini e insieme non cedendo al ricatto. Nessuna censura, nessuna speculazione, in un senso o nell’altro. L’opera di Bo non è piaciuta a tanti – ci sta – ma si trova lì legittimamente. Se la politica arrivasse a rimuoverla, sull’onda del pudore, della diffidenza, del preconcetto o della morale comune, l’ingerenza sarebbe grave. Per fortuna nella Palermo di oggi questo genere di rischio non c’è. Il titolo di “Capitale della Cultura”, probabilmente, racconta anche questo genere di conquista, di privilegio.
– Helga Marsala
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