Manifesta, appunti sul sacro. Tra grande pittura e quel “minchia” a forma di luminaria

Riflessioni su Manifesta, tra quel che c’era e quel che mancava. Nell’assenza di grandi opere incisive, tanti appuntamenti collaterali continuano a tenere banco. Gli ultimi due, inaugurati lo stesso giorno, affrontano il tema del sacro in modo del tutto differente. In un caso destando meraviglia, nell’altro accendendo la polemica.

MANIFESTA E L’OPERA CHE NON C’È

Che la dodicesima edizione di Manifesta abbia scontato uno squilibrio tra la potenza dei luoghi espositivi e la fragilità di molte opere, inadatte a sostenere il peso di una così debordante bellezza, è opinione diffusa. Lavori magari di qualità, di buon livello, certamente penalizzati dal confronto con gli scenari cittadini, ma – a parte qualche raro caso – poco entusiasmanti davvero. Bei documentari, inchieste raffinate, riflessioni fra urbanistica e architettura, qualche esperimento curioso, un po’ di deja-vu tra neo concettualismo o performance, e tanto, tantissimo impegno sociale. Affabulazione poca, narrazione fiacca, linguaggi della tradizione  assenti, ma soprattutto niente grandi “opere” in senso stretto. O quasi. L’arte, a Manifesta, ha scelto di darsi nella sua veste più engagé, in certi casi glamour, in certi altri fortemente intellettuale. Effimera quasi sempre. Il che non è un male, tutt’altro. Ma la forma, la struttura, la pelle e la trama hanno ancora un perché, un’urgenza originaria: perché disfarsene piano piano?

Teatro Garibaldi, Palermo (c) Manifesta. Photo CAVE Studio

Teatro Garibaldi, Palermo (c) Manifesta. Photo CAVE Studio

Dov’erano le opere possenti, presenti, incisive, compiute, sonanti, capaci di interrogare e di lasciare un segno, di sfidare secoli, modelli, occhi, luoghi, icone? Dov’erano le opere come testi visivi o folgorazioni visionarie, come processi complessi racchiusi in un’immagine sola? Capaci di occupare un piccolo spazio lungo la linea della storia.
Manifesta – come tante biennali internazionali – ha messo in circolo la sua verve, la sua energia contagiosa; facendo numeri, coinvolgendo persone, occupando per mesi la stampa di settore, regalando smalto a una città sospesa tra il sonno e un’autentica voglia di trasformazione. Ma Manifesta ha anche mostrato tutta l’incertezza, la sovrabbondanza di cose e di voci non necessarie, la debolezza e la confusione che l’arte stessa sembra scontare in questo primo scorcio di secolo. Un passaggio difficile, per certi versi stanco.

Francesco De Grandi, Come Creatura, 2018, olio su tela, 230 x 340 cm. Courtesy RizzutoGallery, Palermo

Francesco De Grandi, Come Creatura, 2018, olio su tela, 230 x 340 cm. Courtesy RizzutoGallery, Palermo

LA PITTURA SACRA DI DE GRANDI

Così è stato per il programma ufficiale diffuso tra varie sedi del centro storico; e così continua a essere per la lista di eventi collaterali, selezionati da una commissione interna tramite bando: mostre e progetti indipendenti, ma col suggello del brand Manifesta e il placet dei curatori. E a proposito dei ‘collateral’, che continueranno a inaugurare nelle settimane a venire, due eventi sono appena stati salutati in città. Stesso giorno, stessa biennale, stesso calendario di appuntamenti off. Due pianeti diversi, del tutto inaccostabili, se non fosse per le tre coincidenze di cui sopra. Ma anche per un comune riferimento al ‘sacro’: in un caso imponente, altissimo, monumentale; nell’altro giocoso, scanzonato, appena sfiorato.
Il 15 settembre – giorno in cui arrivava Papa Francesco nel capoluogo siciliano, per il XXV anniversario della beatificazione di Padre Pino Puglisi, martire di mafia – una mostra potentissima vedeva la luce. In una galleria. Opere, per davvero. Drammatiche, autentiche, perentorie, con un timbro e una frequenza assoluti, con un posto preciso nel racconto attuale dell’arte ma anche, probabilmente, in quello che si farà storia domani. La personale di Francesco De Grandi (Palermo, 1968), coraggiosamente proposta da RizzutoGallery, avrebbe potuto e dovuto stare dentro un museo internazionale. Dipinti grandi, altri minuti, su tela oppure su carta, tutti capaci di sferrare un pugno nello stomaco, iniettando dosi massicce di colore e di fervore tra la retina e i circuiti neuronali. Il corpus è stato partorito nell’arco di alcuni anni, con la maturità, la perfezione tecnica e la profondità spirituale che un grande artista può mettere in campo quando un lungo percorso si è compiuto. Artistico ed esistenziale.

Entrata di Cristo a Palermo, 2015, Olio su tela, 150x180 cm, dettaglio. Courtesy RizzutoGallery, Palermo

Entrata di Cristo a Palermo, 2015, Olio su tela, 150×180 cm, dettaglio. Courtesy RizzutoGallery, Palermo

“Come Creatura” è un racconto intitolato a Dio, all’uomo, alla natura, alla forza del mito e alle Sacre Scritture, alla vita e alla morte, alla vicenda tragica di Gesù e a un suo immaginario detournement palermitano, alla pulsione viscerale e alla tensione verticale. E non si tratta solamente di una delle cose più importanti che Manifesta è oggi (finalmente) in grado di offrire. È anche un esempio centrato per comprendere dove sta il vulnus di questa biennale: la latitanza dell’opera, il suo venire meno, il suo diluirsi, annacquarsi, dissolversi (ma senza il miracolo, avvenuto decenni addietro, della vera sparizione). Insieme ad altre intuizioni felici, come la video installazione dei Masbedo all’Archivio di Stato, questa mostra indica una strada e riscrive il senso. Per fortuna.

Masbedo, Protocol no 90-6, 2018. Archivio di Stato di Palermo

Masbedo, Protocol no 90-6, 2018. Archivio di Stato di Palermo

MINCHIA, TRADIZIONE RELIGIOSA E QUARTIERI POPOLARI

Contemporaneamente, in Via Alloro, nel sabato chiassoso del Pontefice, è comparsa una luminaria sospesa, come nel tipico scorcio festoso di un quartiere popolare. Ma non c’è il nome della Madonna o di un santo patrono, nè un simbolo religioso o gli auguri per il prossimo Natale. C’è scritto minchia. E basta. Un turpiloquio innocente, che è un intercalare folk, che è Palermo ma non solo, che è un suono grezzo per occupare i vuoti o rimarcare i pieni nel corso di chiacchiere distratte ed esclamazioni. Minchia. Che volendo, a piacere, poteva anche essere Suca (una studentessa di Palermo ci ha fatto una tesi di laurea, finendo sui giornali), come qualsiasi altra cosa un po’ sboccata, un po’ divertente, buona per generare polemica e destare attenzione.
E se ne parla, in effetti, in città. Chi ne ride, chi si indigna, chi si chiede se questa sia arte, chi si arrabbia col Sindaco (ma che c’entra? Anzi, che “minchia” c’entra?) e chi difende la libertà di dire parolacce nello spazio pubblico, a maggior ragione se in forma di installazioni.
E certo che è arte, ci mancherebbe. Ed è ovvio che un artista sia libero di dire, di fare, di provocare, di non scegliere per forza l’educazione o un perbenismo malinconico da ipocrite Orsoline. Arte sì, ma con quale valore? L’autore, il giovane Fabrizio Cicero – sostenuto dal progetto Bridge Art e prodotto da Andrea Schiavo di H501 – dà la sua versione: “”Minchia” diventa una scritta luminosa, un arco temporale, dove la parola risuona come eco del passato accogliendo ancora oggi stranieri e cittadini che lo attraversano. L’intermittenza fa da faro nella notte, un punto di incontro tra ieri e oggi, tra fuori e dentro. Quella che può sembrare un’operazione dissacrante e ingenuamente di rottura, è invece un piccolo, modesto inno al sacro”. Si tratta di “scrivere una parolaccia in cielo oppure riappropriarsi del senso più antico del sacro”, continua Cicero, “attraverso un’arte tra le più recenti, fin dalle origini associata alle celebrazioni religiose: il lumen simbolo di vita e di tensione verso la dimora celeste”.

Fabrizio Cicero, Minchia, 2018

Fabrizio Cicero, Aichnim, 2018

TRA IL SACRO E IL POP

“Aichnim” – questo il titolo, che sarebbe “minchia” al contrario – è un lavoro talmente leggero, così ingenuamente pop, che poteva tranquillamente starci oppure no. Niente di radicale. Ma un sorriso lo strappa, se non fa arrabbiare. Simpatico quanto basta, politically uncorrect ma senza graffiare, incapace di risultare scomodo davvero, ma non limitato alla pura decorazione. A suo modo inscritto tra la memoria e la strada, tra un qualunque rito pagano e uno slang allegramente comune. Un lavoro che scandalizza solo perbenisti annoiati e noiosi baciapile, ciascuno dei quali la parola “minchia” l’avrà masticata mille volte almeno. Scaltro, deliziosamente sguaiato, formalmente risolto ma non necessario. Un lavoro che gioca con l’identità del luogo, quella pittoresca e vernacolare, ribadendola in quanto stereotipo, capriccio linguistico, appartenenza lieve. Niente di eclatante, niente di volgare: giusto una parolaccia appesa al cielo, come si appendono mutande, sguardi alla finestra, parole per caso, girandole, fioriere.
Un lavoro, poi, che ripropone il topos della luminaria, già ampiamente e felicemente affrontato da Massimo Bartolini con opere suggestive (una esposta proprio a Manifesta 12, per un altro evento collaterale a Palazzo Oneto), poi sputtanato in ogni salsa, tra oggetti di design e decorazioni varie. Le luminarie: un po’ la versione local-chic del classico neon di stampo minimalista-concettuale, adottato spesso dagli artisti, in tutte le salse, per qualunque scritta o figura. Una garanzia: ovunque lo metti funziona.
Una piccola opera, certo, che non lascerà alcun segno a parte il ricordo di una trovata curiosa e l’eco di una polemichetta provinciale. E non poteva mancare l’uscita patetica di chi, non capendone un accidenti d’arte contemporanea, prova a farne occasione per misere battaglie di quartiere.

Massimo Bartolini, Caudu e Fridu, Palazzo Oneto, Manifesta, Palermo

Massimo Bartolini, Caudu e Fridu, Palazzo Oneto, Manifesta, Palermo

SE LA CONSIGLIERA DI FORZA ITALIA S’INDIGNA

È il caso della consigliera comunale Sabrina Figuccia, eletta tra le fila dell’opposizione con Forza Italia, ma molto vicina alla Lega. Indignatissima per l’innocua “Minchia” di Fabrzio Cicero accesa in Via Alloro, in un appassionato comunicato stampa ha fatto riferimento a un altro recente “scandalo” legato a Manifesta (quello del video erotico di Zheng Bo, esposto all’Orto Botanico), per sferrare poi un attacco alla nuova opera: “Come se non fosse bastata l’installazione ‘artistica’ dell’amplesso di un tizio con un albero, arriva anche questa bella novità che, probabilmente, rispecchia la visione contorta di qualche ‘artista’ foraggiato da fondi pubblici“. Probabilmente, già. “Stamattina”, ha concluso, “in una lettera inviata al sindaco ho chiesto l’accesso agli atti per conoscere quanto è stata pagata questa installazione, chi ha sostenuto i costi e se Orlando ritiene che simili episodi facciano bene all’immagine della città“.
Magra figura per la consigliera, colta da febbre censoria. Non tanto e non solo a causa dell’approccio bacchettone, ma anche per la grave incapacità di documentarsi prima di sparare a zero. Com’è noto a tutti – e com’è facilmente verificabile con due passaggi su Google – gli eventi collaterali di Manifesta erano messi a bando con la condizione imprescindibile dell’autonomia finanziaria: né Manifesta, tantomeno l’amministrazione comunale, avrebbero sborsato un euro per sostenerli. Ma Figuccia chiede nientepopodimeno che l’accesso agli atti, sperando di trovare chissà che scandalo, chissà che sperpero, chissà quale insulto alla morale e alle tasche dei palermitani. Tutto fa brodo in tempi di politica ridotta a baccano e mediocre comunicazione.
E poi c’è l’arte, oltre il gossip e le polemiche pretestuose: tra opere grandiose e trovate giocose, la dialettica delle immagini e del pensiero consuma concetti, forme, scritture. Il fallimento è un fatto umano, la grandezza dell’opera un obiettivo ancora necessario.

–       Helga Marsala 

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Helga Marsala

Helga Marsala

Helga Marsala è critica d’arte, editorialista culturale e curatrice. Ha insegnato all’Accademia di Belle Arti di Palermo e di Roma (dove è stata anche responsabile dell’ufficio comunicazione). Collaboratrice da vent’anni anni di testate nazionali di settore, ha lavorato a lungo,…

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