Mark Tobey: un artista da riscoprire. A Venezia
Pioniere di un fermento creativo destinato a concretizzarsi nell’Espressionismo astratto di matrice americana, l’artista originario del Wisconsin raggiunge Venezia. Ed è ospite della più esauriente retrospettiva a lui intitolata nell’ultimo ventennio, allestita alla Collezione Peggy Guggenheim.
Le sue tele racchiudono una carica innovativa che affonda le radici nella prima metà del secolo scorso, dominata dal desiderio di rivoluzionare i dettami dello stile, trovando nell’astrazione un nuovo registro linguistico. Eppure il contributo dato da Mark Tobey (Centerville, 1890 – Basilea, 1976) all’epopea artistica dell’America novecentesca non ha ancora ricevuto la visibilità che merita. A puntare i riflettori sulle vicende di un baluardo della modernità è la Collezione Peggy Guggenheim di Venezia, ospite, fino al 10 settembre, di una densa monografica che ne ripercorre l’iter creativo, accostando settanta dipinti prodotti fra gli Anni Venti e il cinquantennio successivo. Sin dal titolo – Luce filante – la rassegna, organizzata dalla Addison Gallery of American Art, con il sostegno dell’Institutional Patron Lavazza, chiama in causa l’originale uso delle linee da parte di Tobey, in un mix tra geometrie e calligrafia, frutto dei numerosi viaggi compiuti a cavallo tra Oriente e Occidente.
LA SCRITTURA BIANCA
Tobey diede via via forma alla cosiddetta “scrittura bianca”, più pacata del vigore messo in campo da Pollock, ma ugualmente di impatto, grazie a un senso di intimità legato a dimensioni contenute e ad atmosfere solcate da una spiritualità che trae origine dagli interessi personali di Tobey. Un approccio radicato nella componente “umanista”, punto di riferimento imprescindibile che lo distanzia dal desiderio di rottura e di un plateale cambio di passo manifestato da Pollock e colleghi. Ma è proprio questa “rivoluzione silenziosa”, innescata ai margini della scena, a fare di Tobey un caposaldo della modernità.
TOBEY E IL BAHÁ’Í
Considerato il padre del grafismo occidentale e il precursore della pittura segnica, nel 1918 Mark Tobey si converte alla fede Bahá’í, religione monoteista, nata in Iran nella metà dell’Ottocento, che sostiene l’unità nella diversità di tutti i popoli e di tutte le religioni. Tobey trasporrà le dottrine Bahá’í in pittura, giungendo all’unità figurativa tra le culture occidentale e orientale, dal Cubismo europeo alla pittura cinese su pergamena. Nel 1926 è in Medio Oriente, dove studia la calligrafia persiana e araba. Nel 1934 si reca in Cina e in Giappone dove, precisamente a Kyoto, trascorre un mese in un monastero zen. In questo periodo è fortemente influenzato dal pittore cinese Teng Kwei e dedito all’arte calligrafica. La gestualità e i segni tipici della scrittura orientale diventano per Tobey strumenti di accesso alla conoscenza di sé e alla meditazione, lungo un percorso artistico e interiore che lo condurrà verso la suddetta “scrittura bianca”.
– Arianna Testino e Desiré Maida
Articolo pubblicato su Grandi Mostre #4
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