Fabio Cavallucci direttore del Pecci di Prato. La prima intervista
Primo ampio colloquio col neodirettore del Centro Pecci di Prato, Fabio Cavallucci. Che ci racconta come è andata a Varsavia e quali progetti ha per il museo toscano. Senza dimenticare il rapporto con Vittorio Sgarbi.
Quando hai capito che era fatta?
Devo dire che è una nomina attesa e sospirata. Al di là delle anticipazioni giornalistiche, la conferma finale è arrivata solo pochi giorni fa.
Cosa secondo te ha convinto maggiormente i “giurati” che alla fine ti hanno proposto come direttore del Pecci?
Credo che il Consiglio Direttivo (perché alla fine è questo l’organo che prende la decisione) si sia convinto soprattutto grazie alla mia conoscenza del panorama istituzionale internazionale. Ovviamente spero che abbia apprezzato anche il progetto, che per alcuni aspetti è rivoluzionario.
Il tuo progetto per Prato. Iniziamo a parlarne…
Voglio costruire l’identità del Centro partendo da un confronto con il territorio. Grandi artisti e grandi iniziative sì, ma ragioni, motivi e temi che nascano da esigenze quanto più radicate possibile in una città come Prato, che attraversa un momento di trasformazione significativo e che proprio per questo è specchio di tutta la Toscana e dell’Italia.
Dopo tanti anni all’estero, finalmente qualche italiano rientra in Italia. Cosa succede, il Paese torna a essere attrattivo per certi versi?
Non me ne sono andato perché l’Italia non era più attrattiva e non torno perché torna a esserlo. Come cultore dell’arte mi sento cittadino del mondo, e potrei lavorare anche al Polo Nord. Come italiano non ho mai smesso di sperare che l’Italia e la sua cultura possano risollevarsi. Se posso dare un piccolo contributo a questo, ne sono contento.
All’epoca di Trento, appena nominato direttore della Galleria Civica, affermasti che volevi fare una galleria, un sito e una rivista. Tre colonne. Quali sono le colonne del tuo progetto al Pecci?
Lo spazio fisico (la galleria) e quello virtuale (il sito) sono ancora importanti. Forse oggi non c’è più necessità di una rivista, ma vedremo. A Prato però indicherei altre colonne del progetto.
Partiamo. La prima colonna?
È la mescolanza tra le arti, l’idea che il Pecci non sia solo un “Centro per l’Arte Contemporanea” ma per le arti contemporanee. Credo che l’ambito più fertile per l’evoluzione dell’arte sia quello in cui le arti visive incontrano il teatro, la danza, il cinema, la musica… Siamo in un’epoca in cui tutto diventa performativo, dalla politica all’imprenditoria, per cui il nostro agire artistico non può essere relegato alla staticità. E quindi immagino un’istituzione dinamica, in cui non ci sono solo mostre, ma anche numerosi eventi, dibattiti, attività educative e partecipative.
Passiamo alla seconda colonna del tuo progetto.
Sì, è l’avvicinamento dell’arte alla società. L’arte contemporanea deve ritrovare il suo posto più vicino alla gente, parlare di cose che interessano, se non tutti, almeno una larga fetta di persone. Deve toccare i nodi irrisolti, i temi portanti della società contemporanea.
E il terzo punto? La terza colonna?
È legata alla seconda colonna ed è il radicamento nel territorio. Conto di creare un sistema di partecipazione molto ampio per la discussione sulle finalità e le strategie generali dell’istituzione: incontri con gruppi, associazioni, singoli, saranno alla base del mio metodo di lavoro. Non per avere indicazioni sui nomi degli artisti o sulle mostre, ma per individuare le finalità generali del Centro in relazione al territorio di cui è emanazione. Infine direi che il Pecci dovrà essere non solo uno strumento per la città di Prato, ma per tutta la Toscana. Dovrà essere capace di rispondere alle esigenze di dislocazione, qualora vi siano entità che necessitano supporto in altre località della regione.
Accetti di andare a dirigere un museo che ha un budget annuo accettabile? E quali saranno le strategie per aumentarlo?
Il Centro Pecci ha il budget consolidato negli ultimi anni, formato principalmente dal Comune di Prato e dalla Regione Toscana. Ora il raddoppiamento degli spazi impone di aumentare questi fondi. Strategie? Non ce n’è una sola ma tante, dai grant internazionali ai partner stranieri, dalle collaborazioni di gallerie e privati nella produzione all’utilizzo delle leggi sulle percentuali da attribuire alla cultura nelle tassazioni. Sono fiducioso: la Toscana ha ancora un forte potere di attrazione, e in qualche modo il suo nome si traduce immediatamente in valore culturale.
Staff. Con chi lavorerai al Pecci? Quale sarà la tua squadra? Come la stai strutturando?
È ancora un po’ presto per dirlo, anche perché per alcuni mesi dovrò portare a termine anche le attività a Varsavia. Non conosco molte persone dello staff del Centro, solo Stefano Pezzato, che mi pare un ottimo curatore. C’è poi stata la questione dei recenti licenziamenti, questione dolorosa, su cui non so molto. È ovvio che occorrerà anche introdurre alcune figure giovani. Siamo in un momento storico, in Italia, in cui credo un’istituzione culturale debba fare uno sforzo e farsi carico di dare spazio ai giovani, di essere per alcuni di loro un trampolino di lancio. Allo stesso tempo non ci possiamo più permettere posizioni di privilegio, e pertanto occorrerà lavorare tutti sodo, se si vogliono raggiungere quei risultati non solo auspicati, ma necessari per garantire l’esistenza dell’istituzione.
A proposito di staff. Lasci il centro d’arte contemporanea di Varsavia con qualche polemica coi lavoratori. Che è successo? Abbiamo trovato un Paese dove i sindacati sono addirittura più invalidanti che in Italia?
I sindacati polacchi sono molto più abili dei nostri. Sviluppatisi durante gli anni del comunismo, che hanno combattuto e vinto, hanno elaborato strategie di lotta sorprendenti. In Polonia sanno leggere dietro le righe di lettere accusatorie, vedendo chiaramente i fini. Quando incontrai il ministro, mi disse: “Quando ricevo lettere dei sindacati io sono contento, perché vuol dire che il direttore lavora bene”. Al di là di questo, bisogna ammettere che c’è anche una grande differenza tra le nostre due culture, che rende ancora difficile confrontare sullo stesso piano impegni e risultati.
Parlando più in generale. Cosa è andato bene e cosa è andato male in tutti questi anni in cui sei stato direttore a Varsavia?
Sul piano dei risultati, direi che nel complesso, anche se con una fatica superiore a quella che avrei speso in Italia, qualche risultato si è visto: grandi mostre di qualità su temi interessanti per gli addetti ai lavori e per il largo pubblico, come British British Polish Polish, un confronto tra due generazioni di artisti polacchi e inglesi, a partire dagli YBAs e dai rappresentanti dell’arte critica polacca; oppure una mostra di arte ucraina contemporanea lo scorso anno, quando già si manifestavano in arte i sintomi della crisi che oggi appare evidente nella sfera politica e sociale di quello Stato. Ma anche mostre personali importanti, di grandi polacchi, come Miroslaw Balka, Artur Zmijewski, o Jozef Robakowski, o di artisti stranieri come Sharon Lockhart, Christian Jankowski o Maurizio Cattelan. Di un progetto speciale inoltre sono molto soddisfatto, Zielone Jazdow, l’attivazione del parco di fronte al Castello Ujazdowski, sede del Centro, con iniziative di carattere ecologico durante l’estate.
Non ti sottrarre alla parte della domanda sugli elementi non positivi…
Non mi sottraggo affatto. Tra gli elementi negativi, i contrasti con i sindacati, ovviamente, come abbiamo già accennato e, devo ammettere, la difficoltà di far passare complessivamente il messaggio complessivo della mission del Centro. Sul piano dei numeri, tuttavia, i risultati sono oggettivi: il budget è passato da circa 11.500.000 nel 2010 a 17.500.000 nel 2013 e il numero dei visitatori da 220.000 a 272.000.
Il Pecci, come forse tutti i centri d’arte contemporanea in Italia, ha un problema di pubblico. Come fare ad aumentarlo? Quali strategie?
Il pubblico è molto importante. Non sono tra coloro che ritengono che sia sufficiente che l’arte interessi un gruppo ristretto di addetti ai lavori per essere buona. Tuttavia bisogna stare attenti a non limitare la valutazione dei risultati a un puro concetto di audience, perché allora basterebbe esporre i corpi umani plastificati di Gunter von Hagens e saremmo a posto. Conta soprattutto la capacità di un’istituzione di essere presente nel dibattito, la sua capacità di portare avanti una ricerca chiara e importante. E quindi ben vengano grandi numeri di pubblico, ma senza scorciatoie. Per farlo non ci sono bacchette magiche, solo un grande lavoro di comunicazione, di didattica, di divulgazione.
In anni passati hai avuto modo di lavorare già in Toscana, dalla Biennale di Carrara a Tusciaelecta. Come giudichi l’attuale panorama regionale sul contemporaneo e quali relazioni pensi di incardinare attorno al Pecci?
Ho avuto l’opportunità di lavorare in questa regione che per alcuni anni è sembrata essere (anche paradossalmente data la massiccia presenza di arte del passato) il luogo più interessante per l’arte in Italia. Poi qualcosa si è sfilacciato, disperso. Difficile dire per quale ragione. Ma credo che sia possibile riprendere le fila di molte di quelle storie, ritrovare l’energia che forse oggi è solo nascosta.
Esiste una questione-Sgarbi che aleggia sopra la tua nomina al Pecci? Esiste la possibilità che il critico ferrarese abbia una presenza, un incarico, una influenza in città e dunque sul museo?
Questa domanda bisognerebbe porla al Sindaco. Da parte mia sono persona determinata, ma anche molto aperta. Se arriveranno proposte interessanti per compiere la mission del Centro, da qualunque parte esse arrivino, saranno prese in considerazione.
Ti sei fatto un’idea di come sarà il Pecci appena finiti i lavori per la nuova ala disegnata da Nio? Tu sarai il direttore che inaugurerà i nuovi spazi: come li allestirai, cosa metterai dove? E qual è il tuo giudizio estetico-funzionale del “piercing” di Maurice Nio?
Alt. Entro oggi qui per la prima volta, datemi qualche tempo per acclimatarmi…
E della “sede distaccata” di Milano cosa ne farai?
È presto per parlare di progetti per il Pecci. Direi però che, con l’Expo in arrivo, è un’occasione che va usata. Credo valga la pena di mantenerlo in vita in questo lasso di tempo. Anche perché il Pecci di Prato è ancora in costruzione, e passerà ancora parecchio tempo prima che possa essere completamente attivo.
Se ti chiedo quale centro d’arte contemporanea ti piace di più in Europa, cosa mi rispondi?
A onor del vero non sono molto soddisfatto di nessun dei centri che vedo attualmente. Tutte le istituzioni mi pare siano in attesa di un cambiamento che ancora stenta ad arrivare. Ci sono comunque degli aspetti specifici di ciascuno che mi sembrano interessanti. Mi piace l’apertura nei confronti di tematiche sociali del Van Abben Museum di Eindhoven, l’orario del Palais de Tokyo che si spinge ad aprire fino a mezzanotte. E mi piace anche la molteplicità scoppiettante di eventi del Centro per l’Arte Contemporanea Castello Ujazdowski di Varsavia che ho fin qui diretto.
Massimiliano Tonelli
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