Charlie Hebdo. Ecco cos’era, ecco chi erano, ecco cosa facevano
In questi momenti non si parla d'altro, e a ragione. Come è stato rilevato da più parti, l'attacco terroristico alla redazione del settimanale satirico parigino “Charlie Hebdo” è nella sostanza un nuovo 11 settembre. Lì si era colpita al cuore l'America, qui l'Europa; e l'orrore macchia un'altra volta tutta la civiltà cosiddetta occidentale, le sue fondanti libertà. La cronaca è tuttora in pieno svolgimento. Ma forse, per farsi un'idea più precisa, urge una messa a fuoco sul bersaglio.
In verità, non è facile per i non francesi immaginare bene che cosa invece possa essere Charlie Hebdo per i francesi. Una rivista satirica, d’accordo. Ma nata e cresciuta (e speriamo tutt’altro che morta) nella patria della stampa umoristica e satirica, quella dei trionfi ottocenteschi di Le Charivari, Le Rire, La Caricature, quella stessa dove Grandville, Daumier, Gill, Philipon e tanti altri educarono i loro contemporanei al riso “artistico” .
La satira in Francia è un irriducibile costume nazionale. Non ne faremo qui la storia, ma almeno va ricordato l’ultimo avo essenziale: Hara-Kiri, journal bête et méchant, il giornale cretino e cattivo che cavalcò indomito gli Anni Sessanta e le cariche del ’68, avendo nella sua faretra frecce acuminate e infallibili che si chiamavano Topor, Gébé, Fred, Cavanna, tutti nomi imprescindibili nella storia dell’espressione libertaria sfrenata e soprattutto molto intelligente. Ecco, quello che in Francia sanno, e altrove si fatica ad accettare, è che lo humour è una forma di intelligenza: di profondità e non di superficialità. Che può fare male, a volte, ma nel complesso fa bene. Fa bene all’individuo e fa bene anche alla società, perché mantiene vivi, vivaci, vittoriosi sulle difficoltà dell’esistenza.
Hara-Kiri era feroce già nel titolo e nel sottotitolo, spavaldamente autolesionistici. Peraltro censure, sequestri, processi non mancarono affatto nella sua breve storia, giocatasi a rotta di collo tra il 1960 e il 1970. Un’ironia troppo audace su De Gaulle l’uccise per sempre. Ma immediatamente si reincarnò come Charlie Hebdo, fratellino terribile settimanale del mensile Charlie, rivista un po’ più seria modellata sull’italiano Linus, che in quegli anni era la stella polare dell’espressività grafica in Europa e nel mondo. Sull’ebdomadario impertinente confluirono in breve le forze più acide dell’intellighenzia critica europea: Reiser, Willem, Siné, Vuillemin – nomi che forse in Italia non tutti conoscono, ma che in Francia sono diventati prima o poi eroi (certo: brutti, sporchi e cattivi) nazionali.
Perché sapevano il fatto loro. Sapevano far ridere. Sapevano scandalizzare. Sapevano interpretare con assoluta nitidezza la contemporaneità. E non avevano paura di nulla. L’asso nella manica di questa incredibile manica di guastatori culturali è sempre stata la luminosa irriverenza nei confronti di qualsiasi forma di potere, di sopraffazione, di stupidità, di malversazione, di fondamentalismo. Fondamentalisti dell’antifondamentalismo, ecco come li si potrebbe definire con buona approssimazione.
Del plotone suicida, oggi possiamo dirlo, facevano parte anche i martiri del 7 gennaio: Charb, Cabu, Wolinski, Tignous. Eroi indomabili dello sghignazzo selvaggio, cari e invisi tanto alla sinistra quanto alla destra, alternativamente, perché non guardavano in faccia nessuno. Erano liberi. Molto più di quanto si riesca a essere fuori dalla culla della liberté, dell’égalité e della fraternité. In quanto pura espressione dell’etica repubblicana, fosse anche solo per questo venivano rispettati. E che terribile fastidio mi dà dover parlare ora delle loro perfezioni all’imperfetto.
Ma quel che va capito è che Charlie Hebdo, nonostante tutte le sue intemperanze, i passi falsi, anche le cadute di gusto, inevitabili, è la Francia. E questo lo si capisce solo in occasioni speciali, critiche, epocali, come queste. È la volgarità raffinata. La capacità di dire cose terribili con inaspettato savoir faire. O il contrario, naturalmente. E aver assassinato vigliaccamente oggi alcuni di questi uomini è una ferita forse insanabile per la cultura transalpina. Difficile trovare un corrispettivo da noi (non certo Il Male, peraltro in parte a suo tempo modellato proprio sugli esempi dei cugini gallici, ma fenomeno più effimero e di penetrazione obiettivamente inferiore nella storia sociale italiana).
Ma proviamo – con tutti i dovuti distinguo e pure qualcuno in più; perciò pardon e absit iniuria verbis. Forse dunque, data la loro popolarità transgenerazionale, potrebbe essere come se fossero stati fatti fuori, che so, una manciata di Ugo Tognazzi, Arbore & Boncompagni, Cochi & Renato, Claudio Bisio, Paolo Hendel, Michele Serra, Benigni, Aldo Giovanni & Giacomo, Corrado Guzzanti, Daniele Luttazzi, Altan, Staino, Bucchi, Antonio Albanese, e volete davvero che vada avanti a rigirare il coltello nella piaga?
Gli amici francesi erano campioni di libertà. Io sono cresciuto con loro, leggendoli ancora prima che arrivassero sulle pagine di Charlie Hebdo, e oggi mi trovo incredulo orfano di pluridecennali compagni di bisbocce, meravigliosi casinisti che mi hanno fatto ridere e pensare per tutta la vita. Non voglio vendette, so che non servono. Ma vorrei che cose del genere non accadano più. Fuor di retorica: mai più.
Ferruccio Giromini
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati