Giancarlo Baccoli e Bruno Munari. Un incontro
Nel 2001 emerge uno fra i corpus più sistematici e sistematizzati del geniale Bruno Munari, raccolto dal dottor Giancarlo Baccoli. Dopo diversi acquirenti interessati a rilevarla, la collezione oggi resta al proprio creatore. Che abbiamo intervistato.
Al Centro d’arte contemporanea di Cavalese è stato affidato in comodato un patrimonio inestimabile, uno fra i corpus più sistematici e sistematizzati del geniale Bruno Munari, raccolto da Giancarlo Baccoli. Una serie di disegni preparatori, bozzetti, xerografie, collage, per un totale di 1.150 lavori che testimoniano i diversi passaggi mentali, grafici e tipografici dell’artista, giocati sul piano del rapporto immagine-parola.
Oggi, quando ancora la figura di Munari rimane latente rispetto alla scena del mercato dell’arte mondiale, quale traccia emerge di uno dei più attenti osservatori del lavoro di Bruno Munari? Giancarlo Baccoli, medico bresciano che inizia la propria avventura con Munari circa cinquant’anni fa, frequentando i salotti degli artisti milanesi, tra Piero Manzoni, Agostino Bonalumi e Lucio Fontana, come guarda oggi alla storia della raccolta ancora di sua proprietà?
Da dove nasce la sua educazione visiva e artistica? Chi erano gli autori e gli artisti con i quali è cresciuto?
In una Milano sul finire degli Anni Cinquanta, il medico apprendista Baccoli era tutto fuorché un esperto d’arte. Assistente volontario al mattino e al pomeriggio, alla sera mi dilungavo ad approfondire la mia specializzazione per concludere il percorso accademico. Inoltre, sposatomi giovanissimo, avevo già tre figli e dunque una famiglia alla quale pensare. Conoscevo l’eziopatogenesi di tanti mali, ma non avevo mai sentito nominare Kafka o Musil. Finché, sollecitato dalla prima moglie, mi sono ritrovato al desco di alcuni artisti milanesi molto in auge: Piero Manzoni, Enrico Castellani e il già consacratissimo Lucio Fontana. A tutta prima io non capivo nulla di loro.
Come e quando è venuto a contatto con Bruno Munari?
Un giorno mi si presentò davanti, per caso, un tipo che non aveva nulla in comune con gli artisti che avevo conosciuto fino ad allora. Tanto i primi erano guasconi, gente dalle grandi bevute, quanto il poco più che cinquantenne Munari aveva l’aria di un impiegatuccio, vestito sempre in giacca e cravatta, con i capelli già bianchi, piccolo di statura, non un gesto o una parola in più, solo di tanto in tanto un lampo che gli attraversava gli occhi.
Eppure bastava fare un passo, oppure spostare una tenda in sua presenza per entrare nel regno delle meraviglie, un regno sconvolgente tanto erano diversi i suoi interessi, dalla pittura alla scultura, dal disegno al design alla pedagogia.
Chi è oggi Bruno Munari?
Oggi Bruno Munari, come tutti gli uomini, è il ricordo di quel che ci ha lasciato, niente di più onesto e vero. Sono però non solo le sue opere, ma anche quello che gli altri uomini riportano di lui, a renderlo una figura vera.
Ricorda la prima volta che ha passato del tempo con Munari?
Lo ricordo perfettamente. Abbiamo avuto una discussione sulla situazione dell’arte in quel momento. Ricordo che parlammo a lungo delle falsità e degli imbrogli dell’arte contemporanea. Munari mi disse: “Sa, dottore, sono venuti da me a chiedermi: ‘Ma perché lei Maestro fa queste ‘cose’ su carta che valgono molto meno? Perché non usa l’olio e la tela che valgono molto di più?’. E allora capii che continuavo a sbagliare perseguendo questo mio lavoro, ascoltando il tono e le sperimentazioni che avevo voluto. Così mi misi a cercare per Milano, prima di tutto, i vari tipi di olio: olio di fegato di merluzzo, olio di oliva, olio di semi di lino. Poi li associai a varie tele: tela di juta, tela di canapa, tela di cotone e via discorrendo. Così esposi queste tele, per la prima volta al pubblico, nel maggio del 1980, il progetto ‘Olio su tela’, alla Galleria Sincron di Brescia e lo riproposi nella sala personale che mi venne dedicata alla XLIII Biennale di Venezia. Su ogni tela non solo segnai esattamente le misure delle superfici e i materiali con i quali erano state composte, ma segnai anche un numero, perché allora, alla Biennale, si assegnavano i punti, a seconda della superficie. Base per altezza diviso due”.
Non c’era nulla di più vergognoso che classificare l’arte in questo modo. Ma il suo progetto ha fatto sì che venisse attuato un profondo ripensamento sull’arte e sulla verità presentata da Munari.
Qual è l’opera, all’interno della sua collezione, che glielo ricorda per antonomasia?
È lo stesso pezzo che mi piace di più e che ho provato, per primo, ad acquistare, appena è stato possibile. È anche il lavoro al quale sono più legato e che mette maggiormente in evidenza determinati aspetti della mia spiritualità. Si tratta di un Concavo convesso.
Esiste un lavoro di Bruno Munari che si rimprovera di non aver comprato, oppure di aver venduto con eccessiva rapidità?
Qui lo affermo con una certa serenità e una certa franchezza. Io sono stanco, stanco della mia collezione, stanco della vita condotta in questo modo. Mi sto liberando di questa sorta di bagarre dell’arte. Negli anni ho ceduto pezzi di Munari, lavori che mi appartenevano e che avevo conservato gelosamente fino a quel momento.
Attualmente sono in lizza due grosse entità italiane private, disponibili all’acquisizione dell’intera collezione. Sto dialogando con persone sensibili, di cui mi fido, persone che hanno dimostrato nella loro vita una grande capacità e molta sensibilità, tanto riguardo alla collezione quanto riguardo a Munari stesso.
Quale il concetto, l’idea di Bruno Munari da lei più amato?
Munari, per il suo carattere, ha rappresentato per me tante soddisfazioni. Era una persona semplice, che non si interessava né ai soldi né al guadagno derivante dall’arte. Non si nascondeva mai dietro al denaro, ma, all’opposto, ci scherzava su. “Basta che muova una matita sul foglio”, mi diceva, “che vada in banca e mi danno subito dei soldi”, aggiungeva ridendo. La sua verità era sempre mescolata all’ironia.
Era un uomo soddisfatto grazie a quel che riusciva a esprimere e a come lo trasmetteva. Non l’ho mai sentito recriminare qualcosa, lamentarsi della propria situazione o parlar male di qualcuno. Poi, è vero, ripeteva sempre che la vita va accolta e accettata con una sensibilità particolare, però per lui le cose andavano sempre bene.
Quale altro artista, per eclettismo, potrebbe essere assimilabile a Munari sulla scena dell’arte italiana? E a livello mondiale?
Forse solo Leonardo, anche se è davvero difficile dirlo. Munari non avrebbe mai accettato il lato glorioso, esaltativo di questo paragone. Eppure a Munari questo aspetto polimorfo, leonardesco gli appartiene, lo pervade e va riconosciuto. Il che, forse, dal mio punto di vista non lo rende paragonabile a nessun altro, nemmeno ai suoi contemporanei. Munari ha sempre cercato di farsi apprezzare senza mai farsi vedere troppo, non lo amava. La mia dunque è solo un’ipotesi.
Chi è secondo lei un collezionista? Quale il suo primo compito, impegno, ruolo?
Il ruolo di un collezionista, se è un vero collezionista, è quello di portare avanti l’opera dell’artista in cui crede. Il che significa, in un certo senso, incarnare anche il suo pensiero e il suo modo di esprimersi. Il primo compito di un uomo è sempre quello di far crescere e di trasmettere tutto ciò che ritiene cultura, a chiunque, al bambino come all’adulto, al contadino come al professore. Il compito di ogni collezionista è quello di formare una sorta di eredità.
Dove si trova attualmente la sua collezione?
Con il centro d’Arte Cavalese abbiamo fatto moltissimo, lavorando a fondo sull’entità della mia collezione e sui suoi racconti. Anche la loro sede, in un palazzo patrizio molto bello, su due piani, si è rivelato fondamentale per l’esposizione di alcuni lavori. L’amministrazione comunale, sebbene senza soldi, è stata di grande supporto, proteggendoci e diffondendo la notizia dell’esistenza di questo corpus di opere.
Ma la mia collezione, in realtà, è sempre nella mia testa. Non sono quelle quattro cose appese alle pareti a rendere, a rappresentare quello che una persona pensa, quello che vorrebbe avere, quello di cui si compiace o quello che già ha. Ogni collezione è un mondo che si crea, che appartiene solo al suo creatore e che deve rimanere sempre con lui. Non è necessario esporre le proprie opere per continuare ad ammirarle e ad accettarle.
Se esistesse un importante museo estero disposto a prendersi cura e a esporre la sua collezione, sarebbe disposto a cederla?
Un po’ a malincuore sì, pur di salvare la figura del personaggio di cui stiamo parlando e il suo operato. Pensare di vendere, per profitto, la collezione in Svizzera o in Brasile, questo mi farebbe male e non sarebbe da me.
Invece, ritenere di doverla cedere all’estero perché il nome di Munari acquisti il valore che merita, ecco, questo sì che mi interesserebbe di più. Non ho velleità né rimpianti riguardo al mio operato. Ho solo grosse delusioni che mi provengono dalle notizie del mondo dell’arte, relative anche ad artisti che ho frequentato. Sono in una fase della vita in cui tendenzialmente evito quel che mi fa soffrire.
Potrebbe esprimere un pensiero, formulare un invito, un desiderio che accompagni il visitatore alla lettura della sua collezione?
Il mio invito è sempre rivolto alla ricerca della verità. La nostra opinione è legata al momento, così come le condizioni legate a ogni opera, il loro apprezzamento oppure la loro provocazione, ma l’importante è poter esprimere sempre quel che si pensa, senza permettere che nulla, all’esterno, lo condizioni. Attraverso una collezione ci si può solo continuare ad avvicinare alla verità, così come attraverso un libro, una mostra, un artista. Perché la certezza della verità non si raggiunge mai.
Ginevra Bria
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