Giuseppe Iannaccone. La collezione dell’avvocato
Entrare nello studio al secondo piano del più vecchio grattacielo di Milano è come entrare in un museo nascosto, dove la passione dell‘avvocato Giuseppe Iannaccone prende vita. L’arte quasi come una terapia e poi sfociata in un collezionismo che parte dall’arte tra le due guerre, vissuta in maniera del tutto personale, e che successivamente arriva all’arte contemporanea. Una collezione estremamente preziosa, che Milano custodisce quasi senza saperlo. E che prima o poi verrà svelata, come un tesoro, a tutti i milanesi.
Giuseppe Iannaccone, lei ha iniziato a interessarsi all’arte come momento di evasione dallo stress dovuto al suo lavoro. Tanto da definire l’arte, in particolare quella degli Anni Trenta, “la stampella dell’anima”. Cos’ha trovato in quest’arte?
Ho scelto gli Anni Trenta e gli artisti del periodo tra le due guerre perché erano profondamente emotivi. Erano artisti molto passionali, molto veri, nel senso che raccontavano cose intime che l’arte ufficiale del regime, l’arte di Novecento Italiano, non consentiva di raccontare.
Ci faccia un esempio.
Novecento Italiano – intendo quello della Sarfatti – e artisti come Sironi, Funi e gli altri, non avrebbero mai raccontato una storia di prostitute, perché questo era contro l’immagine dell’arte che voleva dare la politica ufficiale del regime. Invece i miei artisti, da Ziveri a Badodi allo stesso Birolli, raccontavano anche la passione del sesso nei postriboli. Raccontavano una donna sola al caffè con un bicchiere di vino rosso. Perché non esistono solo le donne leggiadre con i bambini in braccio che descrivevano Achille Funi e Sironi, ma anche le donne lasciate dagli uomini, dai mariti, dai compagni, abbruttite.
Ecco mi piaceva quel modo di raccontare la vita vera. Il modo di descrivere un paesaggio non per quello che è realmente, ma rivisitato attraverso lo stato d’animo dell’artista.
E qui ci vuole un altro esempio.
Un tramonto visto da Scipione è un tramonto con il Tevere pieno di sangue, pieno di sofferenza. Visto da Mafai è un tramonto pieno d’amore, di calore umano. Sono paesaggi dove la figura e i sentimenti umani sono presenti, anche se non sono fisicamente rappresentati.
Di queste cose potrei parlare per ore. Potrei parlare del taxi rosso di Birolli che è pieno di umanità, pieno di trasfigurazione umana, potrei parlare delle periferie milanesi, che nelle mani di Birolli diventano poesia. Tutto questo modo poetico di fare arte, questo modo rassicurante che mi puliva l’anima, che mi dava sicurezza e serenità, mi faceva capire che ci sono cose belle della vita di cui godere per ricaricarsi e poi tornare a lavorare, e anche se hai dei problemi complessi li affronti con una forza ed entusiasmo maggiori.
Perché dagli Anni Trenta-Quaranta la sua collezione passa direttamente all’arte contemporanea?
Le motivazioni sono due. La prima motivazione è che io avevo scelto gli Anni Trenta guardando i libri di storia dell’arte. Era il periodo più simile a me, era quello che volevo io: lo sentivo come un’immagine proiettata allo specchio. Altri periodi della storia dell’arte del Novecento non mi avevano colpito così intensamente. Avevo, invece, lo stimolo di vedere quello che avveniva nell’arte contemporanea, cioè nel momento in cui vivevo.
E la seconda motivazione?
È altrettanto importante: nell’arte italiana, dopo la guerra non c’è più stato un realismo spontaneo. Il realismo che i miei stessi artisti hanno fatto nel dopoguerra lo vedevo finto, posticcio. Per dare un’idea: il Guttuso che dopo la guerra diventa l’artista del Partito Comunista è diventato un altro artista, di regime, come lo erano quelli del Novecento Italiano. Il Sassu dei cavalli non mi interessava. L’arte astratta prima, l’Arte Povera dopo, sono generi che vado volentieri a vedere nei musei, ma che non mi appassionano.
Quindi?
Ecco, ho ricercato alcuni artisti degli Anni Ottanta come Guccione, Ferroni e Vangi, che sento vicini a me. E poi l’arte contemporanea: avevo fretta, una volta studiato, una volta preparato all’arte, avevo fretta di tuffarmi nell’arte del mio tempo.
Collezionare opere degli Anni Trenta e Quaranta è in qualche modo più facile, perché è arte ormai storicizzata. Come si muove e cosa cerca nell’arte contemporanea?
Questo è esattamente lo stimolo per collezionare arte contemporanea. Mi sono interrogato sul fatto che un vero collezionista non deve avere bisogno della guida della storia dell’arte: deve sfidare la storia dell’arte del futuro. Se con gli Anni Trenta mi sono fatto guidare, per l’arte contemporanea volevo guidare io la macchina.
Da questo punto di vista, anche l’essermi trovato in un’altra età, che non era più quella dell’uomo che ha bisogno della stampella dell’anima, ma di un uomo che ormai andava avanti con le sue gambe, sicuramente mi ha aiutato. Ero disponibile ad affrontare maggiori incertezze nella vita e nell’arte e mi sono buttato in una ricerca finalizzata a costruire quella che sarà, spero, la storia dell’arte. Mi auguro di aver messo insieme delle opere che un giorno potranno essere guardate come un pezzo di storia dell’arte di oggi.
Secondo lei quali sono i musei o le fondazioni che si muovono meglio nella contemporaneità?
Tanto per cominciare, tolgo tanto di cappello ai collezionisti privati, perché sono quelli più attivi in Italia. Penso alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, penso a Prada, a Trussardi, al notaio Giuliani che ha fatto questa meravigliosa fondazione a Roma. Guai se non ci fossero queste realtà in Italia!
E per quanto riguarda gli spazi pubblici?
Purtroppo Milano è fanalino di coda, e questo mi dispiace: spero che si risvegli un po’. Perché va bene non avere un museo d’arte contemporanea, che già è un guaio, ma di certo si può fare qualcosa di più con gli spazi che abbiamo qui a Milano. Palazzo Reale potrebbe un po’ abbandonare queste mostre di artisti consacrati, che peraltro vengono spesso presentati con opere minori, e dedicarsi invece di più all’arte contemporanea.
Per quanto riguarda i musei, apprezzo molto il MART di Rovereto e il Museo Marino Marini di Firenze, che è attentissimo all’arte contemporanea, quindi per questo è sicuramente uno dei gioielli italiani.
Ha mai pensato di creare uno spazio espositivo dove esporre le sue opere e magari organizzare mostre d’arte contemporanea?
Confesso che sono riflessioni che sto facendo in questo momento, perché continuo a ripeterlo a tutti che quest’anno compio sessant’anni, forse per ricordarlo a me stesso, e avendo passato gli ultimi trent’anni a collezionare nel mio cantuccio, ora ho tanta voglia di fare qualcosa per gli altri. Non sono ancora in grado, e certamente non ho la forza né la possibilità di fare quello che hanno fatto Miuccia Prada o Patrizia Sandretto. Però nel mio piccolo voglio dare anch’io il mio contributo.
E una mostra delle sue opere degli Anni Trenta e Quaranta?
Ho certamente nel mio cuore l’idea di fare una mostra con le mie opere sia d’arte contemporanea, sia degli Anni Trenta, e mi piacerebbe che Milano mi offrisse questa possibilità senza tanti mercanteggiamenti. Se questo non dovesse avvenire, non voglio lasciare questa terra senza averlo fatto. Quindi lo farò, prima o poi lo farò.
Del resto non sarei il primo. Anche il notaio Consolandi, finché è stato in vita, ha avuto un’esposizione molto parziale a Palazzo Reale, ma poi la vera mostra della sua collezione gli è stata regalata dal MaGa di Gallarate, dopo che lui era mancato. Milano non ha ritenuto di fare per questo grande collezionista una mostra, eppure Consolandi è stato davvero un personaggio straordinario, sia umanamente che come collezionista, e avrebbe meritato che la sua città si fosse accorta di lui. Purtroppo non è avvenuto, quindi non posso sperare tanto di più, io che non sono Consolandi.
Quali sono secondo lei i più promettenti artisti italiani?
È difficile fare dei nomi, perché si ha sempre paura di lasciare fuori qualcuno di importante. Certamente Francesco Gennari insieme a Pietro Roccasalva, Adrian Paci e Pierpaolo Campanini sono artisti estremamente interessanti e meritano una citazione: li ammiro particolarmente. Però di artisti italiani ce ne sono moltissimi. Paola Pivi, ad esempio, è un’artista molto meritevole.
Peraltro tutti questi, nati negli Anni Sessanta e Settanta, sono fonte d’ispirazione per le giovani leve a cui sto guardando con molto interesse. Mi piacciono i lavori di giovanissimi come Giulio Frigo, Davide Monaldi e Luca de Leva. Credo che oggi in Italia qualcosa stia cambiando. Un nuovo modo di pensare, forse, e un nuovo ritorno alla manualità, all’artista che lavora con la propria testa e con le proprie mani, che nell’ultimo decennio si era un po’ perso.
Qual e l’opera d’arte della sua collezione a cui è più legato e perché?
No, questo non me lo può chiedere! Innanzitutto perché non saprei rispondere: ce ne sono tante che hanno uguale valore per me. Sarei ipocrita se dicessi che tutte le mie opere hanno nel mio cuore lo stesso valore, perché si parla ormai di centinaia di lavori, e non è così. Però non riesco a dire qual è quella che amo di più, proprio non riesco. Ci sono dei lavori che per me sono insostituibili.
Mi è capitato di inseguire lavori di artisti che amavo tantissimo e non avevo in collezione, e chi me li ha ceduti mi proponeva di fare cambio con un’altra opera di artisti che avevo in collezione ma dei quali avevo più di un’opera; così spesso avrei potuto fare cambio, però ho preferito pagare pur di non separarmi da nessun lavoro, proprio perché nei confronti di questi lavori io provo un legame forte e indissolubile.
Adesso per lei l’arte è ancora la stampella dell’anima o è “solo” una grande passione?
È una grande passione. Parlare di stampella dell’anima oggi forse è eccessivo. Credo che oggi per me l’arte sia più un rifugio indispensabile per la mia vita, però non ho più bisogno dell’arte come un sostegno senza il quale provo delle insicurezze. È invece qualcosa di cui ho bisogno per andare avanti, per completare quello che sono.
Se tornasse indietro, farebbe ancora l’avvocato o prenderebbe un’altra via, magari quella del gallerista, dello storico dell’arte?
No, no, farei l’avvocato! In questa intervista parliamo della mia collezione e della mia passione per l’arte, ma se parlassimo del mio lavoro il risultato non cambierebbe. Ho una passione enorme per questo mestiere. Quando metto la toga e discuto un processo, sono l’uomo più felice del mondo. Quindi non potrei fare un altro lavoro. Io sono contento così, di avere il mio lavoro che alimenta la mia passione per l’arte, e la mia passione per l’arte che sostiene la mia professione. Questa è una domanda che mi fanno in molti, ma io non aprirò mai un galleria d’arte, né ho intenzione di trasformare una mia passione in lavoro. Io faccio l’avvocato!
Dario Moalli
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati