Serpentine Pavilion. Intervista con SelgasCano
Quest'anno il Serpentine Pavilion ha suscitato molte polemiche. A breve distanza dalla chiusura, abbiamo incontrato gli architetti spagnoli SelgasCano, che ci hanno svelato aspetti inediti del rapporto con la committenza, l’idea progettuale e l’iter realizzativo. Un dietro le quinte che solitamente è nascosto.
Secondo voi perché siete stati selezionati per la progettazione del Serpentine Pavilion?
Per la Serpentine noi rappresentiamo un cambiamento. Siamo i terzi nel cambio generazionale dallo star system concluso con Herzog & DeMeuron, al nuovo ciclo dei progettisti cosiddetti emergenti, da Sou Fujimoto in poi. In questo cambio si capisce che probabilmente abbiamo un altro modo di lavorare. Abbiamo accettato per questo, con la consapevolezza che sarebbe stato un progetto molto osservato, criticato e anche demolito.
Raccontateci com’è andata.
È come immettersi nella corrente di un fiume, alla velocità di quel fiume. La commissione della Serpentine sa chiaramente ciò che vuole e in qualche modo ti ci porta senza che te ne renda conto. Tutto procede da sé, come se non fossi padrone delle tue stesse decisioni. La Serpentine ha un’organizzazione propria anche dal punto di vista tecnico. Hanno una loro squadra di strutturisti e di operai di cantiere che è sempre la stessa, da sempre. Sanno già tutto: come muoversi, quali sono i problemi ricorrenti. Hanno soluzioni già testate per prestazioni e tempi, e o le accetti o rischi di non far nulla. È il progettista che deve entrare in quel ritmo, non viceversa.
È un progetto che, lo ammettiamo, non sentiamo completamente nostro, dati i vincoli, le normative e le regole che gestiscono la macchina Serpentine. Se c’è un errore, è nostro, ma è anche vero che non abbiamo potuto correggerlo e rivalutarlo in cantiere come siamo soliti fare. Mentre ti stai rendendo conto di quel che stai facendo, là è già stato costruito il padiglione.
Avevate aspettative particolari per questo progetto?
Pensavamo di dover lavorare in un parco con la natura intorno. Ci siamo predisposti alla natura, e invece è stato il contrario. E questo ci ha completamente spiazzati. Tutto è puro artificio, lo spazio è limitato, la piattaforma anonima. Noi pensavamo a un labirinto verde, a un giardino segreto da scoprire. Ma non era quello che voleva la commissione della Serpentine. Loro volevano un’architettura fortemente riconoscibile. L’esatto contrario di qualcosa di segreto, da scoprire o in cui perdersi. È paradossale lavorare in un parco e fare qualcosa che non deve avere nulla a che vedere con la natura.
Dunque avete dovuto cambiare rotta…
Beh, il committente è molto implicato, quasi totalmente e fin dall’inizio. Ha idee precise, domande precise, esigenze chiare e stringenti, a fronte dei momenti iniziali di una progettazione, che sono naturalmente di riflessione, più lenti.
Dal contatto con Julia Peyton-Jones e Hans Ulrich Obrist vedi man mano restringersi il campo delle tue possibilità, dei tuoi gradi di libertà. Loro sono molto pronti dal punto di vista culturale, su ciò che vogliono da ogni nuova edizione, e chiedono conto di ogni proposta, di ogni dettaglio. Spesso non ci capivamo o le nostre proposte non gli piacevano. E alla domanda “cos’è che cercate?” ci dicevano “l’eccellenza architettonica”.
Poi viene la parte tecnica, alla quale facevate cenno prima.
Esatto. Definita la parte concettuale con loro, si passa a quella tecnica con il team di ingegneri di cantiere che hanno lo stesso approccio stringente e incalzante, ma sul piano della realizzazione. È un processo rapidissimo in cui tu resti in mezzo, condotto da altri, e devi cercare di tener salda la tua posizione, perché il campo delle possibilità si restringe in maniera brutale.
All’inizio ti illudi che il tema del padiglione sia qualcosa di completamente libero, sperimentale, aperto a qualsiasi possibilità. Poi ti accorgi che non è affatto così: ci sono i vincoli urbani, poi quelli del parco, la normativa antincendio di un teatro vero e proprio, la necessità che sia tutto smontabile e trasportabile. Non puoi evitare nulla di tutto questo, e le migliori aspettative si infrangono. Abbiamo fatto i conti con quelle regole che rendono il padiglione un concentrato di complessità. Il tuo compito come progettista è di farti strada tra quei paletti e riuscire a esprimere, oltre ogni cosa, la tua idea.
Qual è l’idea progettuale che siete riusciti a difendere per il padiglione SelgasCano?
Il nostro padiglione è un’esperienza complessa per materiali, luci e riflessi. È molto importante la relazione con il parco, gli alberi, la storia di tutti i progetti fatti finora. Abbiamo cercato di evitare materiali già usati da altri, ma dalle altre esperienze abbiamo provato a selezionare gli elementi che più ci piacevano: riflessi, luce, trasparenza, natura, spazi intimi. Dai padiglioni del passato abbiamo colto temi, non forme. Abbiamo cercato di concentrarli in un oggetto che fosse molto complesso, sebbene semplice all’apparenza. La forma è uscita da sola. È la somma di quattro o più padiglioni, piccoli e diversi: dipende da come lo attraversi, lo guardi, lo vivi.
Per noi era importante mantenere qualcosa che avesse dello sperimentale, una ricerca, delle incertezze, delle imperfezioni. Abbiamo lavorato con la luce, con le ombre, la pioggia, con i riflessi. Abbiamo compensato così la nostra esigenza di lavorare con la natura, cercando di coglierne gli effetti sull’architettura. Siamo aperti per questo a qualsiasi lettura e interpretazione.
E l’idea compositiva?
Abbiamo tentato di combinare percorsi e ambienti a sorpresa, secondo il nostro obiettivo originario della scoperta e del perdersi, con la possibilità di collegare sempre ogni spazio visivamente, a causa dell’esigenza funzionale richiesta, ovvero di uno spazio per eventi, teatro, musica, in modo che la scena fosse sempre visibile. I percorsi sono concepiti in modo che il padiglione possa essere attraversato trovando sempre scene e condizioni diverse al variare della luce, delle condizioni esterne e del punto di vista. Insomma, non è un padiglione in cui entri, lo vedi e te ne vai. Ci sono molti ingressi, dunque molte uscite, dunque molte possibilità.
A noi sarebbe piaciuto che ognuno potesse entrare da dove voleva, cercare il proprio angolo, restarci o esplorare. Ma la normativa prevede ingresso e uscita chiari ed evidenti. Così abbiamo cercato di farlo senza perdere l’impressione iniziale di un luogo personale, intimo e segreto. Avremmo preferito sfruttare anche le opzioni di luce e cambiamento offerte dal crepuscolo e dalla notte, utilizzando luci basse o il buio totale, ma anche qui la normativa ha remato contro.
Come avete risposto a questi numerosi vincoli normativi?
Abbiamo deciso di usare un materiale prevalente, l’ETFE – Etilene TetraFluoroEtilene, particolarmente resistente al fuoco, e di lavorare sulle trasparenze di colore. Ne abbiamo fatto un piccolo laboratorio sulla sperimentazione per sovrapposizione: a ogni elemento compositivo corrisponde uno specchio dicroico. Non l’aveva ancora fatto nessuno e noi abbiamo voluto provarci, con la consapevolezza che tutto sarebbe stato imperfetto.
A parte la struttura, tutto è lavorato sul posto, come la costruzione di un modello in scala 1:1, con tutti i rischi di un risultato imperfetto che sapevamo si sarebbe notato moltissimo! Insieme alla squadra Serpentine hanno lavorato tre persone del nostro studio, montando e smontando nastri. Gli inglesi sono abituati a costruzioni che rasentano la perfezione ed erano angosciati per il risultato finale. Pieghe, onde e rughe per noi sono fantastici, per loro un po’ meno. Sembrano l’insieme di carte colorate di improbabili grandi caramelle.
E la risposta del pubblico?
La cosa peggiore è che qualcuno passi di là e rimanga indifferente. Noi vogliamo suscitare reazioni, di qualsiasi tipo, anche negative, ma crediamo in una risposta istintiva delle persone. E se il pubblico più partecipe sono i bambini, tanto meglio!
Emilia Antonia De Vivo
www.selgascano.net
www.serpentinegalleries.org/exhibitions-events/serpentine-pavilion-2015
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