Storia e destino. Diario di una giornata a Calais
Calais è il luogo in cui si infrangono le onde del canale della Manica. Ma a Calais io ho visto infrangersi molte altre cose, più o meno tutte quelle che ormai la civiltà occidentale dà per certezze. La democrazia innanzitutto, che lì, in quella che è stata soprannominata “giungla”, mi si è mostrata in una cruda e primitiva verità, finendo per smascherare definitivamente il fatto che per noi quella parola sia il termine che convenzionalmente usiamo per qualcos’altro. È bastato un colpo d’occhio alla morfologia di due città. Darò ora conto della prima, la cosiddetta Jungle.
Alla “giungla” di Calais ci arrivo di mattina presto e, a dispetto della narrativa dei telegiornali internazionali che l’ha dipinta come una sacca di disperazione rimasta bloccata alla frontiera tra Francia e Inghilterra, mi trovo davanti un’immagine brillante nella sua drammaticità. Le tende da campeggio o le baracche assemblate con pochi pezzi di legno di recupero e qualche telo di plastica affondano in un fango in cui le impronte delle scarpe si mescolano con le orme dei topi, e in un costante alternarsi di pozze sempre sul punto di ghiacciare al clima rigido dell’inverno nordico. Un gruppo di sudanesi cerca di asciugare le felpe zuppe stendendole su un filo teso tra due tende.
Il cielo però è plumbeo e scuro. Sono le 10.30 del mattino, ma a queste latitudini la luce è quella di un tardo crepuscolo. Mi invitano. Stanno cucinando della pasta senza condimento. Mi dicono la parola che più di tutte ho sentito ripetere in questa giornata: “Welcome”. Conosco quei volti e quegli uomini, li ho incontrati a Lampedusa nei miei molti viaggi. Appartengono a quella civiltà che ha giocato la vita a dadi sul Mediterraneo e, quando l’ha riavuta indietro, ne ha potuto comprendere il pieno e profondo valore. Questa miseria, questo freddo, le violenze della polizia, non sono allora che sciocchezze, elementi trascurabili, un leggero rumore di fondo comparato alla sinfonia dell’esistere, alla poesia di una terra in cui poter camminare ancora fino a stancarsi, a un amico ritrovato, a una donna a cui poter mandare ancora una lettera.
Dividere quel magro pasto non è allora un sacrificio, ma l’offerta di una nuova amicizia, preziosa come lo sguardo vivo di ogni uomo che incontreranno nei giorni di una vita intera a venire. Sono uomini e donne che vivono per sé e per quelli che non sono riusciti a superare il mare. Da qui nasce questa forsennata attività di incontri, l’affollarsi di persone che trasportano oggetti nelle strade principali della Jungle o negli stretti passaggi periferici in cui si sentono voci cieche provenire da dentro le tende, lungo la fila per il mercatino dei vestiti, o in uno dei ristoranti o nei negozi che questi uomini hanno aperto nel campo proprio come fossimo nel Klondike all’epoca dell’epopea dell’oro. E tutto si riassume in quel “welcome”, benvenuti.
Ma dove? Non è forse già casa nostra questa? No. Non è un dove, ma un quando a cui si riferiscono. Benvenuti nel XXI secolo, benvenuti all’inizio di una nuova Storia di cui questi uomini sono l’avanguardia, il cui movimento, sta rimettendo in discussione le strutture stesse della società recuperandone il senso reale. La loro città spontanea, infatti, non è pianificata. Accoglie uomini provenienti da culture diversissime e talvolta conflittuali, accoglie per lo più islamici, ma costruisce una chiesa che staglia la sua croce contro un cielo di piombo. Sono in settemila, afghani, iracheni, siriani, sudanesi eritrei. Hanno costruito una città la cui mappa è una mappa sentimentale, in cui l’unico ordine è determinato dalla volontà di mettere la propria tenda vicino a quella di un amico.
Forse ci si può perdere, ma non importa, c’è sempre qualcuno che ti dice: “Welcome”. Ho sempre creduto che la gentilezza fosse la qualità più alta dell’umanità e ora eccola diventare forma e sostanza di una democrazia nuova.
Ma perdendomi e trovando ho fatto presto ad arrivare ai margini di questa città spontanea chiamata Jungle e il rumore delle ruspe mi introduce alla seconda città di cui devo dar conto. Dopo quasi un anno di indifferenza delle istituzioni, infatti, la municipalità si è messa all’opera. Spiana le dune di sabbia, cola il cemento, impermeabilizza alla bell’e meglio il terreno per realizzare un villaggio di container da 1.500 posti. Per ora se ne vede lo scheletro. Le strade sono tutte dritte, tutte della stessa larghezza, una griglia che ricorda più quella di un campo di concentramento che non la rete di prossimità attraversata fino a poco prima.
Qui non c’è ancora nessuno. Ma anche gli uomini che vivranno qui già li conosco. Li ho incontrati lungo la mia strada come avevo incontrato gli altri nei porti del Mediterraneo. Questi però li ho incontrati nelle nostre periferie suburbane, nei lager in cui abbiamo reso i gitani dei mostri, nei corridoi al neon delle grandi utopie fallite del Novecento, come il Corviale di Roma o la Cité Radieuse di Le Corbusier a Marsiglia, o peggio in tutti i caseggiati figli dei geometri comunali nei quartieri dormitorio di tutto l’Occidente, dove l’uno ha paura dell’altro e dove Daesh recluta i disperati foreign fighter per la sua guerra finta pagata dall’Occidente. Qui nessuno ci dirà “welcome”, perché qui non è e non sarà mai casa loro. Qui siamo a casa nostra. Non nel nostro Occidente, ma nel nostro tempo, nella nostra Storia, nella nostra democrazia di solitudini e di silenzio in cui forse è lecito pensare ci sia qualcosa che non va.
Torno indietro allora. Pranzo al Cafè Kabul, sulla via principale della Jungle. Faccio due chiacchiere con Abdelsamed, che è afghano e da due mesi prova a passare la frontiera con la Gran Bretagna, nel frattempo lavora in questo bar improvvisato, dove mi dice che guadagna comunque qualche soldo in più di quando stava in Italia.
Tutti parlano italiano, inglese, francese, arabo. Per poter ascoltare, infatti, bisogna conoscere molte lingue, molti linguaggi. In Francia, invece, si parla solo il francese, come in Italia l’italiano e in Inghilterra l’inglese.
Passo ancora qualche ora nella giungla di Calais e, a dispetto del nome, non mi pare che esista luogo più civilizzato di quello al mondo. Poi, al ritorno verso la prima fermata dell’autobus, faccio la strada con un gruppo di siriani scappati da Daesh. Provano ad andare in Belgio per imbarcarsi clandestinamente verso l’Inghilterra, la loro meta. Mentre attendo l’arrivo del pullman, seduto con loro su un muretto, si ferma davanti a noi una camionetta della polizia. I gendarmi escono, scambiano la mia barba per quella di un arabo e ci trattano come cani, ci dicono che non abbiamo neanche il diritto di star seduti. Ci minacciano coi manganelli e ci fanno alzare. Io cerco di spiegargli che sedersi non infrange alcuna legge e uno dei poliziotti, mentre gli altri risalgono sulla camionetta, rimane lì fermo a fissarmi con sguardo di sfida. Io lo osservo con lo sguardo pieno di pietà.
Gli uomini che sono con me sono sfuggiti dagli stessi assassini che hanno macellato i ragazzi del Bataclan di Parigi. Penso che quel poliziotto avrebbe dovuto proteggerli e non minacciarli. Abbracciarli forse, come si abbracciano i fratelli dei propri fratelli uccisi. E, invece, è ancora lì che mi fissa. E in lui vedo il XX secolo, vedo la logica della seconda città, vedo una civiltà stanca e devota più ormai ai riti della morte che a quelli della vita. Vedo il passato. Avrei voluto tendergli la mano, allora, dirgli quella parola magica, quel “welcome”. Ma quando non me lo sono trovato in bocca, ho ricordato che io ero solo un ospite di quella città libera, di quella città del presente, di quel luogo un po’ caotico, un po’ acciaccato, come la Zion del film Matrix, ma consapevole di essersi lasciata alle spalle le tante menzogne di una società che per paura di se stessa ha volontariamente abiurato alla democrazia reale, accontentandosi di una sua pallida imitazione. Io appartengo alla civiltà dei morti. Non ho parole d’accoglienza, non ho porte da aprire. Lo faranno loro, quei siriani, che conquisteranno il mondo come ha ricordato, pochi giorni fa, proprio qui, Banksy, che nella Jungle ha dipinto l’immagine di Steve Jobs, figlio di un rifugiato siriano. Io ho solo un compito, quello di fungere da ufficiale di collegamento, quello di trasmettere quanto di buono la mia civiltà ha da lasciare in eredità. Devo raccontare il mio mondo ai bambini di questa nuova generazione perché possano saper usare ciò che gli lasciamo. E nel farlo uscire dai riti funebri in cui è ormai persa la mia generazione tornando alla vita con chi ha avuto il coraggio di scommetterla e vincerla.
Ora comprendo per intero il senso di quel ciclo di opere di Thomas Cole intitolato Course of Empire (1833-36) che tanto mi aveva impressionato al Louvre. Mi lascio, infatti, alle spalle la Jungle che pare una trasposizione letterale della prima tela della pentalogia, The Savage State. Sì, qui a Calais siamo ancora allo Stato (lo scrivo con la lettera maiuscola intenzionalmente) selvaggio, ma proprio come nel quadro di Cole, poi verranno l’arcadia e l’apogeo, cui seguiranno distruzione e desolazione in cui avevo già rivisto passato prossimo e presente della mia civiltà. È dunque attraverso l’arte che ritrovo il paradigma, e attraverso di esso la certezza che è qui che dovrò tornare, un qui non determinato nello spazio, ma nel tempo, perché qui, a Calais come a Lesbo – dove lo stesso fenomeno ha assunto dimensioni bibliche con l’arrivo di migliaia di nuovi migranti ogni giorno – è iniziato un nuovo ciclo, una nuova Storia.
Gian Maria Tosatti
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