Art in between. Intervista a Julian Schnabel
Poche settimane fa ha inaugurato una mostra a St. Moritz, nella galleria guidata dal figlio Vito, esponendo una nuova serie dei celebri “Plate Painting”. Lui è Julian Schnabel, artista polimorfo e allergico alle definizioni di genere. Proprio come quest’intervista, che tocca i punti salienti di una creatività in perenne trasformazione. Dalla pittura al cinema, dalla politica agli incontri fortunati, l’arte è tutto ciò che accade tra chi osserva e l’oggetto della visione.
Il 14 febbraio ha inaugurato una mostra nella galleria di suo figlio Vito, a St. Moritz. Di cosa si tratta?
Si tratta di sei dipinti realizzati con i cocci di piatti rotti, che raffigurano delle rose. Sono a base di verde, rosa, bianco e nero, sono alti circa due metri e larghi un metro e ottanta. Ciò che li contraddistingue è il fatto che, non appena ti allontani, assumono un carattere pittorico. L’impressione, grazie all’utilizzo dei frammenti e del colore, è che si tratti di foglie e di guardare non un dipinto, ma la natura.
Credo che le pareti interamente bianche della galleria rappresentino lo sfondo ideale per allestire queste opere.
In effetti non le avevo mai viste su questo sfondo, finché non le ho allestite. Perché alcune le ho dipinte all’esterno e altre in una piccola stanza a St. Moritz. Quindi vederle alla luce del Sole è stato piuttosto impressionante. Non c’è cielo in questi dipinti. Sembrano ritagliati direttamente dal mondo. I fiori sembrano delle isole. È interessante come la natura costruisca la propria anatomia e non si capisce cosa sia casuale e cosa voluto.
Com’è stato lavorare con suo figlio? Come ha combinato il rapporto padre-figlio con quello artista-curatore?
Credo che tutto sia cominciato parecchi anni fa, quando era un bambino. Non sapevo cosa avrebbe voluto fare, non l’ho mai spinto in alcuna direzione. Penso sia successo per osmosi. Quando aveva 14 anni mi disse che sarebbe diventato un art dealer e io gli chiesi: “Ma sei pazzo?”. Ovviamente è cresciuto in mezzo a tutto questo, è stato esposto all’arte. È cresciuto in mezzo a una comunità di artisti.
È stato molto interessante vederlo a St. Moritz in mezzo alla sua cerchia di persone, che conosce da anni, e anche il suo rapporto con Bruno [Bischofberger, il titolare della galleria fino al 2009, N.d.R.] è davvero speciale. Bruno è un padrino per lui, è stato di grande supporto a Vito nel momento in cui ha deciso di prendere in mano la galleria. È uno spazio piccolo, grazioso. Vito ha fatto un ottimo lavoro usando anche gli ambienti al piano inferiore. Ha duplicato lo spazio. Penso sia un privilegio fare qualcosa insieme: al di là del fatto che io stia esponendo nella sua galleria, lui è mio figlio. È importante avere un gallerista di cui ti fidi. Ritengo stia facendo un ottimo lavoro.
Quindi crede ci saranno altre collaborazioni come questa in futuro?
Stiamo lavorando insieme su molte cose, non si tratta soltanto di realizzare una mostra. È qualcosa che evolve giorno per giorno. Quindi ripeterò l’esperienza? Sì, probabilmente scegliendo lavori diversi.
Come combina la sua attività di artista visivo con quella di regista e sceneggiatore? Sono due aspetti complementari?
Ritengo che la mia attività primaria sia la pittura e non pensavo sarei diventato un regista cinematografico. Ero un semplice fan del cinema. Dirigere film mi piace e mi piacciono anche gli attori. Se sei un pittore e dai istruzioni a un attore, lui non è tenuto ad ascoltarti, ma se sei il regista sì [ride, N.d.R.]. Puoi avere opinioni sui film, ma se non sei un regista non importa a nessuno. Il primo film che ho diretto è stato su Jean-Michel [Basquiat, N.d.R.] ed è stato piuttosto semplice realizzarlo, naturale. Ho voluto creare una sorta di collaborazione tra le persone, parlando con loro. Sono anche interessato alla musica e ai modi in cui interagisce con la narrazione filmica. Sono estremamente influenzato dal lavoro di molti registi. Tarkowskij è il primo della mia lista.
Per me è stata una grande esperienza mostrare i miei film al Festival del Cinema di Venezia. Io ho vissuto a Milano nel 1977 e non avevo abbastanza soldi per comprare le mozzarelle. Quindi, quando a casa di Giovanni Volpi ho trovato nel frigorifero della mozzarella, mi è sembrato di vivere in una favola, al di là del fatto che dovevo presentare il mio film eccetera [ride, N.d.R.]. Un’altra cosa emozionante è stata sedere tra migliaia di persone, indossando il mio pigiama, e guardare il mio film.
Quindi ha un buon rapporto con l’Italia?
Dopo aver presentato a Venezia i miei primi lavori, ho partecipato ad altre Biennali e ho avuto modo di conoscere Gino De Dominicis, che è stato un mio amico. Ma anche Mario Merz e Giovanni Anselmo, Pier Paolo Calzolari… Amo l’arte italiana, adoro Caravaggio, Duccio, Giotto, Piero della Francesca, ma credo che Merz, Anselmo, Fontana siano davvero dei grandi artisti.
Ho vissuto a Milano tra l’inverno del 1976 e la primavera 1977 e una volta mi recai in un negozio di occhiali in corso di Porta Romana e questa donna, quando seppe che ero un pittore, mi disse che un collezionista abitava proprio lì accanto. Era Giuseppe Panza di Biumo. Il giorno dopo mi chiamò e mi propose di andare a Varese con lui. Ci andai e vidi la sua collezione e a quel tempo non gli mostrai i miei lavori: ritenevo fossero troppo disordinati rispetto a quello che collezionava lui. Insomma, mi sono capitate molte cose straordinarie in Italia e ho la sensazione di essere cresciuto molto nel vostro Paese.
Tornando al legame tra pittura e cinema…
Una parte del mio cervello è uno storyteller: scrivo molto, scrivo anche sceneggiature che poi non realizzo. L’aspetto grandioso della pittura e della scrittura è che puoi dedicarti a loro da solo, quindi ogni tanto sento l’esigenza di realizzare un film per comunicare la mia arte. Io vedo già il film nella mia testa prima di realizzarlo. Credo che l’essenza del desiderio di fare arte sia passare da un medium all’altro, quindi probabilmente sto cercando di indirizzare le stesse questioni verso forme diverse.
Quando faccio un film, tutto ruota attorno a qualcuno che lo guarda e al fatto che lo recepisca oppure no. È tutto mutevole. Se uno sta guardando un dipinto o un film, l’interazione ha luogo tra lo stimolo e chi lo riceve. Lì c’è l’arte.
La sua attenzione, come pittore e come regista, è focalizzata sulle reazioni dell’osservatore?
Io non faccio film per le altre persone, ma so che quando faccio un film, talvolta qualcuno potrebbe non capire e quindi cerco di essere più chiaro rispetto al senso della pellicola. Ma quando dipingo, il linguaggio che uso è così astratto – anche quando rappresento qualcosa di riconoscibile – che è il pubblico a dover agire per conto suo. Deve guardare al dipinto, osservarlo, senza spiegazioni dall’esterno. Io dipingo ciò che mi sorprende, non ciò che già conosco. Voglio usare il medium pittorico per vedere qualcosa che non ho ancora visto.
La stessa cosa capita nei film: li faccio per cercare di capire cosa penso veramente riguardo al tema. William Carlos Williams ha detto che la verità è nelle cose. E il desiderio di comunicare può assumere molte forme diverse. Dipende dalla direzione in cui tira il vento, non sai mai cosa ti succederà dopo esserti svegliato al mattino.
Come sceglie il tema dei suoi film? Lei ha affrontato anche tematiche politiche. Crede che il cinema sia un buon mezzo per parlare di questi argomenti, soprattutto in una situazione complessa come quella attuale?
Molti dei film che ho fatto parlano di artisti. Miral si basa su tematiche politiche. L’ho fatto perché trovo che la questione dei diritti umani sia un argomento importante e quotidiano. Ma credo anche che qualsiasi cosa sia politica: quando scrivi e qualcuno legge, è politico. Il mio obiettivo nel fare arte è realizzare qualcosa che consenta, a chi vi entra in contatto, di guardare al mondo e alle possibilità in maniera differente. Penso che l’arte sia qualcosa che ha luogo tra l’oggetto e l’osservatore: l’artista lavora su ciò che accade in questo punto di mezzo.
Lei così offre allo spettatore la possibilità di leggere il mondo e la realtà in maniera diversa.
Sì, ma io sono soltanto un altro spettatore. Partecipo e creo qualcosa, ma è incredibile quanto mi abbiano sorpreso i miei dipinti una volta esposti in galleria. Pur essendo qualcosa di fisico e reale, nato dall’assemblaggio di parti, quando li guardi, li vedi cambiare e allo stesso tempo cambi anche tu. L’arte ha qualcosa di mistico, anche quando il soggetto è tragico.
Mi piace l’idea che un artista possa ancora sorprendersi del proprio lavoro.
Come ha detto Christopher Walken: “Se non puoi sorprendere te stesso, come puoi sorprendere gli altri?”.
Anche lo spettatore è in grado di capire se un artista è ancora capace di sorprendersi oppure no.
Esatto. Io non voglio ripetermi. Mi sento bene quando lavoro perché mi perdo in ciò che faccio. È un piacere e un privilegio. Mi sento molto fortunato.
Ha qualcosa di nuovo in programma?
Mi piace muovere le cose attorno a me, perché poi appaiono in una luce diversa. Andare via dal luogo in cui vivi o lavori e poi farvi ritorno cambia completamente la prospettiva sulle cose. Succede sempre. È come se l’identità di ogni oggetto, poi, fosse nuovamente chiara. Credo sia un processo.
Penso che l’arte ti porti nel suo presente, ogni volta. Quando guardi un dipinto di Caravaggio, ti sembra di vederlo per la prima volta. Questa è la ragione, ad esempio, per cui la gente vuole tornare a Venezia, anche se l’ha già vista. Perché? Perché c’è qualcosa da guardare. Vuoi tornare a vedere un’opera o un luogo perché vuoi sentirti di nuovo come ti sei sentito la volta precedente.
Arianna Testino
St. Moritz // fino all’8 marzo 2016
Julian Schnabel – 6 Rose Paintings
VITO SCHNABEL GALLERY
Via Maistra 37
+41 (0)81 544 76 20
[email protected]
www.vitoschnabel.com
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