Istanbul. Il futuro dopo Gezi Park
Com’è cambiata la città sul Bosforo e la sua scena dell’arte negli ultimi due anni, dopo la resistenza di Gezi Park, quando salvare una manciata di alberi significò il risveglio di un’intera nazione? Ve lo raccontiamo con la guida della curatrice turca Ceren Erdem. Mentre dalla capitale turca continuano ad arrivare notizie ben poco rassicuranti…
UNA CITTÀ CHE NON TI ABBANDONA
Da Istanbul non si fugge mai veramente: una volta che ne diventi parte, che le consenti di adottarti, che ne fai casa, anche se per un tempo limitato, non ti lascia scampo. Non importa quanto possa deluderti, spaventarti, farti arrabbiare, soffocarti; non conta quanto lontano tu sia: è impensabile non preoccupartene, non seguirne gli sviluppi, non essere partecipe dei suoi cambiamenti sociali, politici, economici e urbanistici. “Negli ultimi cinque anni ho vissuto a New York per studio e lavoro, ma mi trovavo a Istanbul nel giugno 2013, quando è iniziata la resistenza di Gezi Park. È stata una fortuna, perché ho potuto prendervi parte di persona”, racconta Ceren Erdem, 36 anni, istanbuliota ma originaria di Gaziantep, nel team curatoriale della mostra Istanbul. Passione, gioia, furore, allestita al Maxxi di Roma fino al 30 aprile.
Esserci ed essere in prima linea nel momento in cui la città si risvegliava e prendeva coscienza, all’inizio per impedire la demolizione del parco di piazza Taksim, che sarebbe dovuto essere rimpiazzato da un nuovo centro commerciale, e poi per alzare la voce contro la politica oppressiva, l’ideologia conservativa e la democrazia regressiva dell’allora primo ministro Erdoǧan – presidente della Turchia dall’agosto 2014 – è stato un impegno condiviso da tutta la comunità artistica e intellettuale della metropoli sul Bosforo. Volkan Aslan, 33 anni, di Ankara ma con base a Istanbul, era fuori dalla Turchia quando scoppiarono le proteste, ma non ci pensò due volte ad anticipare il rientro per poter scendere in piazza assieme ai colleghi, agli amici e a migliaia di persone, “unite per la prima volta oltre qualsiasi distinzione sociale: dai musulmani anticapitalisti alla comunità LGTBQ sino agli ultras del calcio. I repubblicani e i nazionalisti erano fianco a fianco con i curdi; si viveva una straordinaria solidarietà e comprensione reciproca”, ricorda Erdem.
GEZI PARK: UNA SVOLTA STORICA
Questo spirito di fratellanza e comunità è una delle ragioni per cui Gezi Park ha rappresentato un punto di rottura per Istanbul; ma lo è stato soprattutto “per le giovani generazioni come la mia, che sono cresciute per lo più apolitiche”, spiega la giovane curatrice. “La Turchia ha sofferto un colpo di stato militare nel 1980 [il terzo dalla fondazione della Repubblica turca, N.d.R.]: allora indagini sistematiche e torture della polizia e dei militari erano la norma, perciò molti dei nostri genitori impegnati politicamente si sono dovuti acquietare. Gezi Park è stato importante per noi ma anche per loro, perché hanno potuto vedere che la resistenza che avevano condotto negli Anni Settanta poteva esserci ancora”.
Il 15 giugno 2013 le forze dell’ordine hanno fatto irruzione nel parco e sgomberato i manifestanti con un ultimo, feroce atto di forza. Il parco era perso, ma la consapevolezza raggiunta, la collettività riscoperta, le energie ridestate, quelle restarono in piedi. “Dopo Gezi, gli artisti hanno iniziato a formare gruppi di solidarietà, piattaforme dove discutere problematiche sociali e politiche, ma anche questioni inerenti la pratica artistica in sé. I progetti individuali furono messi in stand-by, perché la realtà era così forte che volevamo solo esserne parte, stare fuori nelle strade, lavorare assieme, invece che focalizzarci sulla nostra personale attività. La vita reale divenne più importante del chiudersi nel proprio studio a lavorare. Poi alla fine si è ripreso, ma con una nuova consapevolezza”.
UNA DEMOCRAZIA INSTABILE
Da allora la situazione è andata peggiorando: il governo spinge sempre di più verso la trasformazione del Paese in un neo-impero ottomano; l’urbanizzazione accelerata e dilagante continua a mettere a rischio di una crisi ecologica e sociale il territorio extraurbano; le ultime urgenze geopolitiche, come l’imponente afflusso di rifugiati dalla Siria, l’Isis e i rapporti tesi con la Russia non hanno fatto che aggravare il momento storico. La libertà di stampa e di espressione si è assottigliata giorno dopo giorno; redazioni e canali televisivi dell’opposizione sono stati costretti a chiudere; si moltiplicano arresti e condanne e, nel mirino, ci sono soprattutto giornalisti e blogger – dal 2014 ne sono stati incriminati circa trecento – ma anche gente comune, accusati in virtù dell’articolo 299 del codice penale turco, che condanna come vilipendio al presidente qualsivoglia critica e opposizione al potere di Ankara.
“Nell’ultimo anno sono stata a Istanbul per preparare la mostra del Maxxi e ho sentito un senso di soffocamento, letteralmente”, racconta Ceren Erdem a proposito della vittoria spiazzante di Erdoǧan e dell’AKP alle ultime elezioni, lo scorso novembre. “Nel 2015 ci sono stati due round elettorali. Il primo, a giugno, aveva portato una ventata di speranza, con il partito filo-curdo HDP che ha passato la soglia di sbarramento del 10%, facendo perdere la maggioranza assoluta al presidente. Il risultato non è piaciuto al leader del Paese e, in un modo molto controverso, si è impedito di formare un governo di coalizione e sono state indette nuove elezioni. Nel frattempo, gli uffici e i quartieri generali dell’HDP sono stati attaccati, saccheggiati e incendiati. Il 20 luglio è accaduto il massacro di Suruç, nel sud est della Turchia, dove giovani volontari diretti a Kobane per aiutare nella ricostruzione sono rimasti vittime di un attacco terroristico; poi è seguita la bomba ad Ankara durante una manifestazione pacifica, nella quale hanno perso la vita un centinaio di persone e molte altre sono state ferite gravemente. Amici dei nostri amici sono morti in quegli attacchi. È dura… È difficile respirare, l’aria è densa, pesante. Le persone possono essere prese random in custodia dalla polizia”.
L’ennesima conferma arriva qualche giorno dopo l’intervista, il 31 dicembre 2015, quando Pınar Öğrenci – tra gli artisti in mostra al Maxxi – è arrestata e rilasciata qualche giorno dopo, assieme ad altri membri della comunità artistica di Istanbul che si trovavano a Sur, nel distretto curdo di Diyarbakır, nel sud est del Paese, tra le fila di una marcia di pace partita da Bodrum.
SPAZI D’ARTE FRA PUBBLICO E PRIVATO
In questo quadro complesso e mutevole, la scena dell’arte contemporanea di Istanbul rispecchia lo stato della sua città nell’essere entusiasta, fiera, dinamica, ma anche agitata, conflittuale, contraddittoria.
Se da un lato i fatti di Gezi hanno accresciuto l’impegno politico e civile degli artisti, dall’altro questi ultimi preferiscono essere cauti riguardo al politicizzare il loro lavoro; e quando non lo sono, o rischiano di finire sotto la scure della censura governativa, o di essere isolati da un sistema che, monopolizzato da capitali privati, per lo più concepisce l’arte contemporanea come un bene di consumo “facile da digerire” per i facoltosi quanto poco illuminati collezionisti locali, o una “scatola ben confezionata di Turkish Delight” per il pubblico non turco (per riprendere quanto scritto dalla curatrice turca Beral Madra nel saggio Istanbul: Frosty Spot, pubblicato online nel dicembre 2014). E ancora, se da un lato si avverte la necessità di un museo pubblico di arte contemporanea, svincolato dagli interessi e dai gusti personali dei grandi mecenati, dall’altro si è consci che è stata la privatizzazione delle strutture culturali, avviata negli Anni Ottanta, a trasformare la scena dell’arte autoctona da periferica a internazionalmente riconosciuta. Tuttavia, negli interstizi di questo scenario, non mancano spazi di resistenza autofinanziati che, con budget ridottissimi, propongono un’alternativa ai grandi musei privati e alle gallerie commerciali, dove artisti, architetti e collettivi attivano riflessioni critiche e sperimentano idee, progetti e speranze, non solo culturali, per il futuro della Turchia.
Dunque, quali sono gli spazi istituzionali per l’arte contemporanea in città? “Purtroppo non ne abbiamo molti”, precisa Erdem. “In realtà esisteva un importante museo statale di pittura e scultura: era alloggiato in un edificio storico nel complesso del Palazzo di Dolmabahçe, ma poi è stato evacuato ed è rimasto chiuso per tantissimi anni, tanto che nessuno degli artisti delle generazioni più recenti ha visto le opere della collezione, a meno che non siano state esposte in mostre o altre istituzioni. Comunque pare che a breve questo museo riaprirà in un’altra area.
Dall’altro lato, ci sono alcune importanti iniziative private supportate da grandi banche o corporation, come SALT, un’istituzione culturale non profit, importante anche a livello internazionale, con un programma dinamico, aperto a diverse forme d’arte, e una serie di facilities per la ricerca. C’è Arter, che entro un paio d’anni diventerà un museo vero e proprio della Vehbi Koç Foundation, una delle principali fondazioni private turche, nonché main sponsor della Istanbul Biennial. Il Koç Contemporary Art Museum [il progetto è firmato dallo studio inglese Grimshaw Architects, N.d.R.] mostrerà la collezione della fondazione, accanto a mostre temporanee. Poi ci sono alcune gallerie private, ma in termini di spazi non commerciali non abbiamo molto: c’è 5533, un artist-run space ad Unkapanı; Mars Istanbul, project space a Beyoğlu fondato nel 2000 dall’architetto e artista Pınar Öğrenci; mi viene in mente anche DEPO nel quartiere di Tophane, una piattaforma che propone molti progetti da varie regioni della Turchia e dai Paesi vicini e mostre sulla storia recente di Istanbul: quest’anno, ad esempio, si è approfondita la questione del genocidio armeno. Dunque sì, ci sono queste iniziative, ma abbiamo bisogno di più spazi gestiti da artisti, di realtà indipendenti, di progetti pop up”.
LE FIERE E LA BIENNALE
E le due fiere d’arte, Contemporary Istanbul e la più giovane ArtInternational? “Devono migliorarsi”, risponde Erdem in imbarazzo. “Il panorama delle gallerie commerciali è recente. Le prime sono spuntate una ventina d’anni fa circa; all’inizio ce n’erano solo un paio e vendevano prevalentemente pittura alla gente ricca per abbellire le loro abitazioni. Oggi il lavoro del gallerista per supportare gli artisti nelle loro carriere si sta evolvendo e le fiere d’arte devono ancora imparare molto…”. Ceren Erdem ci parla poi dei luoghi della formazione per gli artisti e i curatori: “Ci sono le accademie statali che sono molto conservatrici nel metodo di insegnamento, dove si studiano materie tradizionali come la scultura, la pittura, la fotografia e via dicendo. Poi dipende dal professore: ce ne sono alcuni di mentalità aperta, capaci di entusiasmare gli studenti, e altri che sono invece molto rigidi e inquadrati. La formazione artistica conta poi su università private, scuole d’arte e di architettura: sono piattaforme più aperte, che offrono maggiore libertà. Lo stesso vale per i curatori. Non ci sono corsi specifici: si può studiare storia dell’arte, critica artistica o cultural studies”.
Il quadro della scena dell’arte di Istanbul non può dirsi completo senza la sua biennale – l’ultima edizione, la 14esima, quella curata da Carolyn Christov-Bakargiev, si è chiusa lo scorso novembre. Un evento che, sin dagli esordi nel 1987, ha mantenuto intatto il suo ruolo portante nell’intera economia culturale della Turchia contemporanea. “La Biennale è preziosa per noi”, spiega Erdem. “È stata un’incredibile risorsa, per me e per gli artisti della mia generazione, che rispetto agli altri colleghi, ad esempio americani o europei, non siamo cresciuti vedendo opere d’arte contemporanea. Grazie alla Biennale abbiamo avuto questa incredibile opportunità di imparare. Inoltre alimenta la scena locale perché crea un traffico di artisti e curatori internazionali. Dipende poi dall’approccio del curatore di turno e dal tipo di biennale che si vuole costruire, se più improntata al territorio o meno, o del pubblico che si intende coinvolgere o a cui rivolgersi. Ormai è un palco internazionale”. Una vetrina, aggiungiamo, uno spettacolo confezionato ogni due anni per il pubblico straniero. Ma la quotidianità della comunità artistica di Istanbul è ben altra, fatta di compromessi con il mercato, contraddizioni inevitabili, ottimismo nonostante tutto e battaglie giornaliere a difesa di quella libertà ritrovata, un giorno, in un parco.
Marta Pettinau
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #29
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