Culturali si diventa. L’editoriale di Fabio Severino
Per essere vera deve essere viva. Per essere un luogo dove ci sia cultura, nel quale i cittadini ne respirano e se ne abbeverano, se ne accrescano, la città deve produrre cultura. Questa regola vale per ogni taglia di città. E in Italia la situazione com’è?
COS’È UNA CITTÀ CULTURALE
Ci sono tanti luoghi del mondo che da sempre sono grandi produttori di cultura: Parigi, Londra, New York, Berlino. Più di recente, ad esempio, Seul e Rio. Anche tante piccole realtà, tante città italiane, Matera ad esempio, o la più grande Torino. La stessa Milano ha saputo fare dell’occasione Expo il pretesto per diventare una città culturale: viva, reattiva, creativa.
Una città è culturale se incoraggia la produzione, attraverso le proprie istituzioni e sostenendo quelle private; se attrae artisti a risiedervi e a lavorarci; se facilita le occasioni e i luoghi di scambio e incontro; se favorisce l’economia culturale con contributi, scuole, premi, ospitalità; se incoraggia la domanda e il consumo culturale con l’abbassamento delle soglie di accesso grazie a promozione, comunicazione, istruzione, mobilità, servizi alla persona, politiche dei prezzi.
ROMA E IL PESO DELLA STORIA
Sulle città italiane pesa la responsabilità della conservazione del patrimonio storico: il più delle volte ne sono prigioniere, data l’esiguità dei fondi a disposizione, la poca fantasia a trovarne altri e la scarsa capacità di ottimizzare le spese.
Roma è l’unica città ad avere un Soprintendenza comunale all’archeologia e ai musei. Ha un centro storico di ben 72 kmq dichiarato patrimonio Unesco perché vi sono rilevati addirittura 25mila punti di interesse culturale. È parliamo del solo centro storico. Non è un caso il soprannome: la Città Eterna.
Ma Roma non è una città culturale, ancor meno una capitale culturale: italiana, europea, mondiale. Perché fa poco o nulla sul contemporaneo. Roma non riesce a spostare o quantomeno a equilibrare il suo baricentro verso di esso. È tutta solo storia.
IL COMPITO DELLA POLITICA
Dai tempi di Nicolini e Argan di fine Anni Settanta, ma soprattutto dagli Anni Novanta con l’elezione diretta del sindaco, le amministrazioni romane hanno provato a fare delle politiche pubbliche per il contemporaneo. Il massimo che si è avuto però è stato l’eventismo. Tanta bella effervescenza, che all’indomani ha lasciato il deserto.
Non a caso, all’avvicendarsi degli assessori, ormai quasi una decina, si partiva sempre da zero o poco più. Non si è avuto un progetto di città, una visione. Nel migliore dei casi ci si è concentrati a far quadrare i conti, a mettere in sicurezza l’archeologia e a fare qualche “festicciola”. Nonostante alcune occasioni oggi ancora tutte da cogliere come l’Auditorium, il Macro e lo statale Maxxi. A cui si aggiunge un’incredibile Nuvola all’EUR.
Un po’ di privato si è dato da fare, per fortuna, senza neanche troppi soldi ma con tanta voglia di partecipare, di condividere: street art, musica, arte contemporanea, editoria. Qualcosa nel tempo si è mosso, ma disomogeneo, non coordinato, senza supporto pubblico (a volte, anzi, con un certo ostracismo).
E ora?
Fabio Severino
senior advisor del fondo d’investimento Oltre venture
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #30
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