“Nel silenzio, di notte, quando dormono tutti coloro che lui conosce bene, allora diventa un uomo migliore”. Scrive di sé, parlando in terza persona, Elias Canetti. Una frase frugale, silenziosa ma lampante, lasciata in un angolo di un diario, composto a mano attorno ai primi Anni Cinquanta. Una breve descrizione che incarna, per sovrapposizione, il buio cosmico di Antonio Marras: Nulla dies sine linea. Mostra antologica che raccoglie anime e corpi di un uomo continuo, un artefice di segni, un artista propiziatore pronto a rivelare come è stato il futuro, attraverso il lavoro segreto degli ultimi vent’anni.
A piano terra, entrando sulla destra, appena passata la biglietteria, nella cosiddetta Curva Est della Triennale di Milano, il Triennale Design Museum ha invitato il Vincitore del Premio Francesca Alinovi, protagonista di una delle ultime Biennali di Venezia, a esporre una parte inedita di disegni, dipinti, collage, installazioni, interventi a parete e ambienti sotto la curatela di Francesca Alfano Miglietti. “Io e lei” racconta lo stilista “ci siamo incontrati nuovamente dopo moltissimi anni, sul pianerottolo della casa di Lea Vergine. Una delle mie prime interviste, per Virus, era stata scritta proprio da lei. E, non a caso da quel momento, a mio modo di vedere, incoraggiati dal fatto, sono nate moltissime iniziative, anche nel mio spazio, di cui lei è curatrice. A mano a mano che il tempo passava, poi, lei è venuta in contatto con i miei lavori, con la mia parte sommersa, lavoro che è altro rispetto ai miei famigerati “stracci”, così tutto questo fondersi porta infine a Nulla dies sine linea”.
LA LEZIONE DI CAROL RAMA E MARIA LAI
“In mostra è presente una forte parte di me, quindi anche un cammino viscerale, fisico” sottolinea Antonio Marras, all’ingresso, “che è la parte più sconosciuta. Ma sarà visibile anche quel lato composto da un’altra voce, dal mio modo di rapportarmi con le altre discipline, percorso che rispetta il concetto di non-confine del pensiero tra le diverse arti. Tutto può essere collegato, anche se il mio lavoro, di solito, si ritiene, sia solamente il mettersi a fare stracci [ridendo, N.d.R.]. Nonostante io, all’interno di una sfilata, spesso riesca a far dialogare diverse dimensioni del segno. Questa volta, però, sono esposte installazioni che io ho fatto, nel tempo, assieme ad altri artisti, persone che ho avuto modo di conoscere e con i quali ho avuto la fortuna di aver lavorato. Da Maria Lai a Carol Rama, facendo il garzone di bottega. Con queste signore che mi hanno permesso di giocare, di rimandare, palleggiare, riconvertire e rinviare cose, di tutti i tipi, attraverso le quali ci siamo molto divertiti a creare, come sempre da incosciente e grazie alla stessa follia che mi porta qua, oggi, ho lavorato e mi sono esposto, sicuro di poter rimanere dietro queste grandi donne. Sicuro di non essere mai io, in prima battuta, a dovermi mettere in avanti”.
IL PERCORSO ESPOSITIVO
Per la mostra della Triennale Antonio Marras, insieme a una serie di installazioni edite e inedite, ha rielaborato più di cinquecento disegni e dipinti, realizzati nel corso degli anni, montandoli su vecchie cornici su cui è intervenuto intessendoli con le più disparate stoffe e appendendoli lungo le pareti della Curva della Triennale, testimoni e al tempo stesso narratori della vita raccontata nelle “stanze”, installazioni con finestre, porte, pertugi, abitate da vecchi abiti (nessuno disegnato da lui) e oggetti di varia natura e foggia. La soglia, protetta da una pesante tenda scura, accoglie lo spettatore – non solo il visitatore –, attraverso un’impenetrabile fila di giacche nere, un blocco da attraversare e far risuonare, attraverso campanacci dorati che suonano differentemente gli uni dagli altri, appesi come strascichi, in aria. Una seconda frontiera, invece, propone una lunghissima serie di camicie bianche, impreziosite dal profumo di lavanda, per riportare la mente all’infanzia, a quei profumi di casa che si sentono solo quando si è piccoli, quando i cinque sensi avvincono e sono più forti.
“All’inizio” prosegue Marras, che ci accompagna quasi per mano nell’allestimento “ho posto alcune comari che chiacchierano tra loro, sono figure umanoidi imbottite e legate da numerosi fili rossi, che rappresentano i loro discorsi, ed è un’installazione che avevo realizzato molto tempo fa in un vecchio carcere ad Alghero, che avevo ripristinato ed erano in una stanza in cui i carcerati potevano avere un dialogo con i propri cari, attraverso uno spioncino. Lo spazio della Curva, che è molto grande, in realtà, è sempre stato ben delineato, per quanto riguarda le installazioni, a livello di volumi, ma si trattava di disporre ambienti che avevo già manovrato e di cui avevo già conoscenza allestitiva, a livello di ingombro. Ma quel che non avevo mai esposto sono tutti i lavori a parete, inediti perché frutto di anni di accumulo di carte, che ho messo via e verso le quali ho provato una spinta convulsiva, di quelle folli, dopo un grande lutto subito ad inizio dell’estate. A partire da quel momento ho riversato su questi lavori il mio amore, la mia rabbia, la mia paura, il mio terrore e la mia angoscia. E solo la follia che mi governa e mi guida ha fatto si che io acquistassi 500 cornici vecchie sulle quali sono intervenuto solo negli ultimi due mesi. Smontando il lavoro di vecchi artigiani di un tempo che costruivano i dipinti. Sono intervenuto su imperfezioni e punti di sutura di vecchie cornici, adagiando i miei collage, i miei disegni, le mie carte, i miei dipinti, fatti con il fondo di caffè, ma anche alcuni olii”.
IL PITTORE SEGRETO
Calendari, foto, tracce di vita vissuta propongono un’infilata di elementi sovrapposti, come tessuti, basi, pezzi di incrostazioni, vecchi dipinti che lasciano emergere il soggetto dal piano sul quale è stato impresso, quasi a ricercarne una resa tridimensionale, a farlo sbalzare in avanti, a farlo diventare misura di contatto di quella stessa gestualità che lo ha conformato. Sono esposti anche i venti diari realizzati per la Biennale di Venezia, ma come ricorda Antonio Marras, gli originali sono andati persi, perché posti, custoditi eccessivamente al riparo dal disordine. Al di sotto di venti cupole di cristallo altrettanti quaderni, delle stesse misure e dimensioni, si schiudono alla luce bassa come dipinti, rifatti appositamente. Ma perché questo tipo di produzione di Marras è stata così a lungo tenuta nascosta? “Ne ho sempre avuto vergona, è stata Maria Lai a costringermi a ritirarli fuori, dicendomi: “un giorno ti ho lasciato bambino e ora ti ritrovo artista”. E io che lì per lì mi sono nascosto dentro me stesso, pur riempiendomi di vita, ho cominciato a metterli da parte, a conservarli. Poi quando è arrivato il momento giusto, assieme a FAM, nel tempo ho rimesso ordine al mio caos ordinato pur lavorando su cinque tavoli in contemporanea, aggiungendo e sottraendo, facendo più cose in una. E’ per questo motivo che è facilmente riscontrabile il segno dal quale provengono, pur avendole trasformate in altre cose: c’è l’uso e il ri-uso di tessuti sui quali intervengo; ci sono figure come il pugile, che era lo sport preferito di mio padre, boxeur che spesso ricorrono; ci sono colori che nascono dallo stesso momento; ci sono carte dai diversi spessori”.
UN ARTISTA INQUIETO
“Purtroppo non ho pace, non ho sosta, non ho un attimo di pausa e ho una spinta interna che mi costringe a non smettere, a colmare a disegnare, a incollare tutto ciò che trovo in ogni dove” ci dice rispondendo alla domanda su perché venga considerato un creativo tanto inquieto. “Anche il profumo di lavanda mi dà pace come il bianco attorno ad una poesia scritta. Essendo dislessico non riconosciuto, per i miei occhi la pace non erano le parole, ma quella spuma rassicurante della cellulosa, dell’antologia che le stava attorno. Tanto i versi mi davano respiro, quanto le immagini, le illustrazioni che hanno sempre infarcito i miei diari”.
Ogni soggetto, ogni volto è sempre frutto di premeditazione, oppure è semplicemente una trasposizione della realtà? “Tutto potrebbe essere molto vecchio, ma ogni viso, ogni volto è stato presentato come ultimo atto di un passaggio –talvolta li ho rimaneggiati decine di volte- . Non sempre mi sono lasciato guidare da quel che la carta lasciava emergere. Anche se raramente, in mostra, ho inserito qualche ritratto di mia moglie e dei miei due figli. All’inizio del percorso, addirittura, espongo collage sui quali sono intervenuto dopo aver chiesto a mio figlio di disegnarne i contorni; oggi sembrano enormi ecclesiasti. Ma le presenze familiari sono rarissime.
Ho trasportato i miei lavori, dalla Sardegna, all’interno di ottanta scatoloni, riuniti per grandezze diverse e non per temi, perché solamente avendoli con me, tutti insieme, per la prima volta visibili nello stesso spazio, sono riuscito a riempire perimetri di superfici, appendendo il mio primo quadro ad una parete e comprendendo quel che avevo sempre realizzato”.
Ginevra Bria
Milano // dal 22 ottobre 2016 al 21 gennaio 2017
Antonio Marras – Nulla die sine linea
a cura di Francesca Alfano Miglietti
Catalogo Skira
LA TRIENNALE
Viale Alemagna 6
02 724341
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