Un regista di mostre. Parola a Pier Luigi Pizzi
Scenografo, regista teatrale e allestitore di mostre. La lunga storia professionale di Pier Luigi Pizzi dimostra che i confini disciplinari sono fatti per essere oltrepassati, sfruttandoli come trampolino di lancio per lo sviluppo di un linguaggio autonomo e consapevole. Lo abbiamo incontrato e questo è il racconto di una vita all’insegna della determinazione.
Milanese di nascita, classe 1930, Pier Luigi Pizzi è uno dei maestri del teatro italiano. Amante dell’arte e del collezionismo, ha saputo far convergere le sue passioni in una carriera organica, proprio come i percorsi dei suoi lavori teatrali e delle mostre da lui allestite. Viaggiatore instancabile, da sedici anni ha scelto Venezia come dimora, allestendo la sua affascinante quadreria in un contesto d’eccezione, l’atelier appartenuto a Tiziano.
Partiamo dagli esordi. Da dove deriva la sua passione per il teatro?
Ho amato e conosciuto il teatro sin dall’infanzia. Allora vivevo a Milano ed ero bambino quando sono andato alla Scala per la prima volta. È stato un incontro rivelatore, ho sempre saputo che il teatro avrebbe fatto parte della mia vita e così è stato. La scelta di studiare architettura deriva dal mio bisogno di possedere una formazione molto solida, anche se ho sempre saputo che non mi interessava costruire il solido ma l’effimero. Tutto ciò è avvenuto molto presto, così io non ho perso tempo. A vent’anni ho cominciato a lavorare in teatro come scenografo, accumulando una serie di esperienze non solo italiane e collaborando con registi di diversa formazione, potendo così maturare una mia personalità. Poi c’è stato il passaggio alla regia e questo ha reso il mio lavoro più autonomo. Potevo contare su un bagaglio di esperienze molto importanti, maturate in vent’anni.
Anche la passione per l’arte è stata precoce?
Mi sono sempre occupato di arte. Fin da ragazzino ero attratto da mostre di arte contemporanea e musei e ho avuto la fortuna di incontrare persone illuminanti come Guido Ballo, che teneva delle lezioni di storia dell’arte all’Accademia di Brera e che era capace di stimolare l’interesse in maniera coinvolgente. Grazie a un lavoro che mi portava in giro per il mondo, ho potuto coltivare questa passione. Alle soglie degli Anni Ottanta, mi trasferii a Parigi e vi rimasi per più di vent’anni, lavorando a stretto contatto con il mondo dell’arte. A quell’epoca facevo soprattutto degli spettacoli barocchi e un conservatore del Louvre che stava preparando una mostra sulla pittura italiana del Seicento e che aveva visto i miei lavori a teatro mi chiese se fossi interessato ad allestire la mostra. Non lo avevo mai fatto, ma ero molto incuriosito perché era un ambito che amavo. Ho avuto l’opportunità di realizzare al Grand Palais, per conto del Louvre, una grandissima esposizione dedicata alla pittura italiana del Seicento presente nei musei di Francia.
Cosa ricorda di quell’esperienza?
Ho partecipato anche alla fase di ricerca, non solo a quella di allestimento. Ho impiegato due anni per preparare questa mostra ed è stato molto affascinante vederla prendere forma. Mi ha interessato soprattutto confrontarmi con i curatori, che si occupavano della parte scientifica e che prevedevano un’impostazione tradizionale. La volontà di sperimentare qualcosa di nuovo era più mia che loro. Mi accorsi che in Francia questo tipo di pittura non era particolarmente conosciuto né particolarmente amato, quindi cercai di elaborare delle soluzioni per farlo capire e apprezzare, in tutte le sue accezioni. Questa mostra del 1989, intitolata Il Seicento, ha fatto epoca, vincendo un premio per la museografia inventato per l’occasione dal Ministero della Cultura. Da quel momento ha preso il via un nuovo capitolo della mia attività, con una serie di commissioni, per esempio a Napoli, insieme a Nicola Spinosa, e a Firenze, con Mina Gregori e Antonio Paolucci. Grandi mostre pensate come concetti, non come un accrochage. Il primo obiettivo era mettere le opere a confronto tra loro e farle parlare, offrendo spunti di riflessione ai visitatori.
Quali tangenze ci sono fra il suo lavoro in teatro e quello di allestitore?
C’è un forte legame tra le due attività, perché, in fin dei conti, per me una mostra è una messinscena, ma non solo dal punto di vista estetico. Ogni mostra ha una sua filosofia, una sua necessità – almeno quelle sulle quali mi impegno – tutte da sviluppare. Quando faccio una mostra parto dal percorso, che non è solo un tracciato grafico sulla pianta, ma è una narrazione, una successione di quesiti cui bisogna dare delle risposte. Questo discorso dà un senso alla mostra.
Una sorta di trama.
Sì, un racconto. Naturalmente, perché tutto ciò possa esistere, la mostra deve avere una sua forte connotazione, che permetta di affrontare un discorso di questo genere, altrimenti resta un accrochage corretto, cronologico, certo, ma lontano dai miei interessi, quelli che passano attraverso l’esperienza teatrale. In una mostra, utilizzo spesso i quadri o gli oggetti d’arte come se fossero personaggi, con la differenza che hanno un diverso modo di espressione. L’importante è farli parlare.
Questo può valere anche per l’arte contemporanea?
È più difficile, perché mi trovo più a mio agio con le opere che hanno una forte componente drammatica, che si offrono al dialogo. L’arte contemporanea è più ermetica, spesso astratta, comunica meno con il visitatore e quindi io faccio più fatica quando non riconosco un punto in comune tra me e l’opera. Se non scatta questa scintilla, ci fermiamo lì.
Io pensavo a quel filone dell’arte contemporanea che include un’alta componente performativa…
L’installazione, per esempio, è già una rappresentazione, ma questa è l’artista a farla, non io, quindi, a quel punto, cosa mi resta da fare? Rischierei di sovrappormi alle intenzioni dell’artista che, avendo a disposizione un proprio linguaggio, può presentare l’opera secondo il suo criterio e non attraverso un interprete. Come regista di mostre, non sono particolarmente interessato all’arte contemporanea.
Il concetto di “regista di mostre” mi affascina. Credo che in esso dovrebbero convergere anche le azioni dei curatori, dei commissari.
Sì, lavoro molto con il comitato scientifico di una mostra. Ora ne abbiamo in preparazione una molto interessante a Venezia. Ho partecipato a una riunione di lavoro, anche perché, avendo suggerito il luogo che mi sembrava ideale, molto connotato e condizionante rispetto allo stile, avrebbe potuto approfondire la ricerca del materiale in rapporto all’ambientazione del percorso.
Anche questo aspetto concorre all’idea di racconto, organico e composito, di cui si parlava prima.
Certo, sono interessato solo alle mostre per le quali il mio intervento possa avere un significato. Esistono mostre che non hanno bisogno di un interprete, non tutte hanno bisogno di una regia, che potrebbe risultare ingombrante perché enfatizzerebbe aspetti che invece è meglio lasciare tra parentesi.
Lei ha lavorato su vari palcoscenici, sia sul fronte teatrale sia su quello allestitivo. Quali differenze ha notato tra il lavoro in Italia e quello all’estero?
Ho vissuto molto a Parigi, ma, non avendo il problema della lingua, non mi sono mai sentito straniero. Inoltre la musica arriva dappertutto, grazie al suo linguaggio comprensibile a chiunque. Non ho avuto difficoltà a intendermi con i miei interlocutori – a prescindere dal luogo – sulle ragioni di un’esposizione. La stessa cosa vale per il teatro. Addirittura posso dire che la metodologia di lavoro è quasi identica fra il teatro, l’allestimento di una mostra e la sistemazione di un museo. Seguendo sempre l’idea del racconto, il tipo di approccio è simile, cambiano solo i rapporti.
A proposito di rapporti di lavoro, c’è qualche aneddoto che le piacerebbe raccontare?
Sul fronte dell’allestimento, ho avuto più discussioni che non in teatro, nel senso costruttivo del termine. Mi è successo di avere a che fare con commissari in disaccordo con le scelte che stavo compiendo. Per esempio a Firenze, in occasione della mostra Magnificenza alla corte dei Medici, ho avuto parecchi scontri con uno dei commissari. Se non fosse stato per l’intervento di Antonio Paolucci, avrei abbandonato il lavoro. Alla fine questo interlocutore ostile a certe mie decisioni ha rinunciato a intervenire, lasciandomi fare. Durante la conferenza stampa, tutti ci aspettavamo che manifestasse il suo disaccordo. Inaspettatamente, riconobbe con molta umiltà di aver avuto torto visto il risultato, ammettendo che le mie scelte non erano dettate dal capriccio, ma da una rigorosa logica. Ho una regola: se ti attieni alla logica, ti salvi.
Come si comporta durante l’allestimento di una mostra?
Sono sempre presente, come a teatro. È un piacere per me e un’opportunità di intervenire in corso d’opera, pronto sempre a modificare, se serve alla buona riuscita del progetto.
Lei è anche un collezionista. Qual è la storia di questa sua passione?
Ho iniziato tardi. Mentre vivevo a Roma negli Anni Sessanta, ho avuto la possibilità di conoscere vari pittori, come Vespignani, Tornabuoni, Guccione, di cui compravo le opere quando andavo nei loro studi, ma non con l’obiettivo di farne una collezione. Poi questi artisti mi hanno deluso, mi aspettavo che facessero percorsi più entusiasmanti, li vedevo chiusi in una sorta di autocompiacimento. Tranne Schifano, di cui possiedo un pezzo tra i suoi migliori. Quindi la mia raccolta “contemporanea” si interruppe quasi subito. Dopo la mostra parigina sul Seicento, un amico mercante mi ha offerto un’opera di quel periodo, che ho comprato e che è diventata la prima di una lunga serie, cresciuta nel tempo, acquisendo una propria fisionomia. Nata negli Anni Novanta, è piuttosto recente e ha il pregio di una certa coerenza nei temi.
Come mai la scelta di vivere a Venezia?
Dopo vent’anni a Parigi, avevo voglia di tornare in Italia. Pur possedendo ancora la casa a Roma, non volevo tornarvi perché trovavo la città molto cambiata, non più vivibile dal mio punto di vista. Mi recavo di frequente a Venezia perché lavoravo alla Fenice e avevo molti amici. Dopo aver cercato casa a Firenze e a Bologna, quasi per caso ho trovato a Venezia quella in cui vivo da sedici anni.
Dove la vedremo prossimamente?
Continuo a lavorare in teatro dove posso farlo come piace a me, senza condizionamenti e con serenità. Ora andrò nella Marche, nell’ambito di un circuito che utilizza forze giovani, in tre bellissimi teatri, Ascoli Piceno, Fermo e Fano. Metterò in scena Nabucco, in una versione minimalista, adatta a una compagnia di giovani cantanti ben preparati. Con questo stesso gruppo sono stato recentemente a Zagabria e, anche lì, è stata un’ottima esperienza.
Sull’altro fronte, a Venezia mi sto occupando di Palazzo Ducale, dove stiamo realizzando con Gabriella Belli un grosso lavoro di riordinamento. C’è tantissimo da fare e, per la mia impazienza, i tempi sono lunghi. Ma è talmente gratificante passare del tempo in mezzo alla bellezza!
Arianna Testino
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