Wael Shawky conquista Torino (e Rivoli). L’intervista
Apre domani 2 novembre una doppia mostra dell’artista egiziano: la retrospettiva al Castello di Rivoli e la grande personale alla Fondazione Merz. Noi l’abbiamo intervistato mentre stava allestendo quest’ultima… riempiendola di sabbia.
È un anno importante per Wael Shawky (Alessandria d’Egitto, 1971). Finalista dell’Hugo Boss Prize, l’artista egiziano ha vinto la prima edizione del Mario Merz Prize e ora si appresta a inaugurare tre mostre in Italia: il 2 novembre la retrospettiva al Castello di Rivoli (con la trilogia Cabaret Crusades, 2010-15) e una personale alla Fondazione Merz di Torino (con la sua seconda trilogia, Al Araba Al Madfuna, 2012-16), mentre dall’8 novembre la sede milanese di Lisson Gallery gli dedica un solo show con disegni, una “mappa vitrea dell’antico Oriente” e marionette in vetro soffiato. E se volete sentirlo parlare, Shawky sarà ad Artissima il 5 novembre in un talk programmato alle 17:30 al Meeting Point.
Qual è il ruolo delle marionette nel tuo lavoro?
Sono molti i loro ruoli. In primo luogo, è un modo per tradurre il concetto di manipolazione nella società, in politica, nella religione. In secondo luogo, nell’ambito del racconto, è un modo per sfuggire al dramma.
Cosa intendi?
Utilizzando le marionette non sei costretto a dipendere dalla capacità degli attori. Non ci sono emozioni, c’è solo il tema, l’argomento di cui si parla; così è più semplice focalizzarsi sul punto che si intende trattare. C’è poi un terzo motivo: le marionette non hanno genere – certo, impersonano ruoli maschili o femminili, ma non le si osserva dal punto di vista sessuale.
Sono caratteristiche che in un certo senso ritroviamo nei bambini e nel tuo lavoro con loro.
Esatto. Lavoro con i bambini perché non hanno un retroterra storico quando parlano di certi argomenti. Si limitano a seguire cosa racconti loro. Anche in questo caso non c’è attorialità, you kill the drama!
Spesso gli artisti che lavorano con varie forme di sostituti dell’essere umano, di doppi, mostrano anche una spiccata politicità. Penso – fra i tanti esempi – alle marionette e al teatro d’ombre di Mario Rizzi, alle silhouette di Kara Walker, alle animazioni di William Kentridge. Possiamo considerare il tuo lavoro come un lavoro politico?
Sì, è politico nel momento stesso in cui cerco di non renderlo tale.
Spiegaci.
Il mio è un lavoro sui desideri umani, o almeno questo è il mio obiettivo. Poi è chiaro che diventa politico, poiché parla di relazioni fra Stati, di religione, di storia…
Se il dato politico è una specie di effetto collaterale, nelle tue intenzioni qual è il focus della serie Cabaret Crusades?
È un’analisi dei meccanismi che ci portano a credere alla storia scritta. In quella serie, le Crociate sono raccontate dal punto di vista arabo.
Un punto di vista diametralmente opposto rispetto a come le guardiamo e studiamo in Europa.
In generale, la storia è una creazione umana e noi talvolta ci crediamo troppo, come se si trattasse della Bibbia o del Corano. La storia scritta è una forma d’arte, soprattutto quella antica. E infatti in Cabaret Crusades i testi sono tutti tratti in maniera accurata da documenti storici. Dal punto di vista visivo, però, ho reso i dialoghi surreali, con alcuni personaggi che sono impersonati da animali, ad esempio. Così credo sia più facile ragionare sulla presunta autenticità dei testi stessi.
Se non è politica questa!
Diventa politica… Sì, ok, è politica! [ride, N.d.R.]
Voglio dire: quando l’arte è didascalica, esplicitamente politica, in genere non funziona – né dal punto di vista artistico né da quello politico.
Sono d’accordo. La storia delle Crociate, una storia che ha centinaia di anni, ha molti aspetti paralleli con quanto succede attualmente. Non sto dicendo che la storia si ripete meccanicamente, ma è chiaro che ci sono elementi ricorrenti.
Ad esempio?
Nel secondo capitolo di Cabaret Crusades c’è un personaggio che si chiama Usama ibn Munqidh. Lui era uno storico ed è stato una fonte importante per tutti e tre i film della serie. Però non era soltanto uno storico: era anche il Ministro degli Esteri di Damasco – allora non esisteva ancora la Siria. Non mi interessa se fosse uno storico capace o meno. Ma non possiamo non considerare il fatto che lo storico più importante della Crociate dal punto di vista arabo è al tempo stesso colui che ha agevolato la firma del primo trattato di pace con i Crociati – un trattato che puntava a far difendere Damasco dai cristiani contro gli arabi di Aleppo. Come possiamo credergli?!
Insomma, è complicato…
Non è come nei film di Hollywood, non ci sono buoni che sono solo buoni e cattivi che sono solo cattivi. Non ci sono cristiani contro musulmani, o almeno non è così semplice. Nei miei film ci sono tantissimi dettagli proprio per questa ragione: per restituire almeno in parte la complessità degli eventi.
Il complesso rapporto fra mito e verità è al centro anche del tuo ultimo lavoro, Al Araba Al Madfuna.
È una storia pazzesca…
Cominciamo dall’inizio: Al Araba Al Madfuna è un paese che esiste realmente?
Certo! Ero lì pochi mesi fa.
La storia quando inizia?
Nel 2000-2001 era affascinato dalla metafisica, o meglio dall’idea di credere alla metafisica. La nostra cultura – intendo quella egiziana, sia musulmana che copta – ne è profondamente impregnata. Per farla breve: esistono altre creature, gli spiriti, che sono costituiti da una materia diversa rispetto a quella che forma gli esseri umani. Sono esseri a metà strada fra terra e cielo, e in molti credono che si possa comunicare con loro tramite dei medium. Le ragioni per farlo sono assai diverse, non solo la pura conoscenza come per il sufismo…
Quali altre ragioni spingono a tentare la comunicazione con questo “mondo di mezzo”?
Per curare malattie, per conoscere i segreti altrui o per trovare dei tesori sepolti sottoterra.
Tesori?
Sì, c’è una comunità piuttosto estesa di gente che lo fa di professione. Sembra incredibile ma è così! Il loro sogno è trovare il tesoro faraonico e scavano ovunque – anche se ovviamente è illegale. Avete un museo egizio fantastico a Torino proprio perché una volta era semplice scavare e poi vendere agli stranieri! Comunque, a me affascina il fatto che si sfruttino credenze metafisiche per ottenere benefici molto fisici e molto materiali: oro e denaro.
Torniamo al tuo lavoro. Il primo contatto con il paese avviene nei primi Anni Zero. E poi?
Nel 2011 ho vinto l’Ernst Schering Foundation Art Award e mi è stato chiesto di preparare un progetto per la mostra che avrei fatto l’anno seguente ai Kunst-Werke di Berlino. Non so perché ma, andando indietro con la memoria, ho ripensato a quelle due settimane indimenticabili che avevo trascorso ad Al Araba Al Madfuna dieci anni prima. Il problema era: come potevo tradurre quell’esperienza fatta di metafisica ed esorcismi, spiritualità e materialismo?
Che risposta ti sei dato?
Ripensavo a una ragazza che parlava con una voce da uomo – hai presente il film L’esorcista? Era uguale! – e mi sono detto: “Girerò un film impersonato da bambini che però parlano con voce da adulti”. Tutta la serie è impostata in questo modo: ho girato in diversi paesi, i bambini erano gli attori, mentre le voci erano doppiate da registrazioni effettuate in precedenza. Dal punto di vista visivo vedi una storia, ma ne ascolti un’altra. Questo è il primo film, che ho presentato ai KW.
Poi c’è stato quello che hai presentato alla Serpentine nel 2013.
Esatto, e il terzo capitolo è quello che vedrete alla Fondazione Merz. E probabilmente chiuderà la serie. La première è stata a Zurigo durante Manifesta.
Prima parlavi di “diversi paesi”. I film quindi non sono stati girati ad Al Araba Al Madfuna?
I primi due no, mentre quest’ultimo sì. È stato girato nell’area del tempio di Seti e nell’Ozorion adiacente. Non è stato facile ottenere i permessi!
Solo il terzo film però è “in negativo”. Perché?
Se tornassi indietro, li farei così tutti e tre. Credo che l’inversione sottolinei questo legame fra materialità e metafisica, e inoltre elimina ogni residuo di emozionalità.
La mostra alla Fondazione Merz non si limita però alla proiezione dei film.
Nelle mie mostre cerco sempre di combinare diversi medium, per evitare le limitazioni che ognuno di essi porta con sé. A Torino ci saranno quindi i film e anche molti disegni – il disegno è un mezzo espressivo che mi piace per la sua spontaneità. E per aumentare l’immersività cercherò di far entrare il visitatore in un disegno, letteralmente.
Vale a dire?
Le pareti sono dipinte con il colore che utilizzo di consueto come sfondo per i miei disegni. Ho costruito una torre, che è presente in centinaia di miei disegni. E camminerete sulla sabbia.
Sulla sabbia?
Speriamo che funzioni! La sabbia è importante perché tutta la mostra è giocata sul concetto di rivelazione – che significa scavare alla ricerca del tesoro, in primo luogo, ma poi ci sono molti altri livelli…
È la tua prima volta a Torino?
Ho una relazione speciale con questa città. Nel 2009-2010 ero a Biella, alla Fondazione Pistoletto, e lì ho prodotto il primo film della serie Cabaret Crusades. All’epoca stavo studiando le diverse modalità che esistono per produrre marionette e ho scoperto una collezione stupefacente a Torino, la collezione Lupi. Mi hanno prestato 110 marionette che avevano due secoli e con esse ho realizzato il mio film. Torino quindi per me è importantissima e sono felicissimo di presentare le due serie di film proprio qui, nello stesso giorno [il 2 novembre, con Cabaret Crusades al Castello di Rivoli e Al Araba Al Madfuna alla Fondazione Merz, N.d.R.].
Full of metaphysics…
Exactly!
Marco Enrico Giacomelli
Torino // fino al 5 febbraio 2017
Inaugurazione 2 novembre 2016 ore 18
Wael Shawky – Al Araba Al Madfuna
a cura di Abdellah Karroum
FONDAZIONE MERZ
Via Limone 24
011 19719437
[email protected]
www.fondazionemerz.org
www.mariomerzprize.org
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Rivoli // fino al 5 febbraio 2017
Inaugurazione 2 novembre 2016 ore 19
Wael Shawky
a cura di Marcella Beccaria e Carolyn Christov-Bakargiev
CASTELLO DI RIVOLI
Piazza Mafalda di Savoia
011 9565222
[email protected]
www.castellodirivoli.org
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