In morte di Oksana Shachko, femminista inquieta. Le Femen, la pittura, il suicidio

Si è uccisa a 31 anni, nonostante il talento, il carattere, l’impegno politico, la bellezza. Oksana Shachko aveva una vita difficile, da fuggiasca e da ribelle. E da quattro anni aveva abbandonato le sue compagne di performance radicali, per dedicarsi alla pittura…

È morta all’improvviso, sul finire di luglio, nel suo piccolo, sguarnito appartamento di Parigi, a Montrouge: pochi metri quadrati, occupati da pochissimi mobili, tra cui un armadio. Lo stesso dentro il quale Oksana Shachko, nata nell’87 in Ucraina, ha deciso di impiccarsi: il suo corpo è stato ritrovato lunedì 23, la notizia è esplosa sui media il giorno successivo.
31 anni appena, molto conosciuta negli ambienti dell’attivismo politico-sociale e nei circuiti culturali di stampo femminista, Oksana era bella di una bellezza tipicamente dell’Est, definita fra la grazia dei tratti, l’aspetto adolescenziale e il piglio volitivo. Esile, ma con una faccia e una presenza che bucavano: l’ardore negli occhi, il corpo nervoso, flessuoso, il sorriso mite, poi tagliente.

DIECI ANNI FA, LE FEMEN

Che avesse carattere da vendere, che fosse una ‘tosta’, era chiaro. La sua storia parlava per lei, con quell’esperienza radicale avviata nel 2008 insieme a un gruppo di donne: le Femen hanno unito comunicazione, performance e guerrilla urbana, sotto la bandiera di un post-femminismo spinto fino alle sue più colorite conseguenze. E nonostante la vitalità di fondo, le strategie mediatiche e il riscontro internazionale, il progetto non fu esente da episodi di speculazione, da gestioni dispotiche e da radicalismi sfociati in azioni non sempre riuscite, per certi versi pretestuose.
L’ attivismo di Oksana era audace, graffiante, figlio di un contesto socio-culturale – quello ucraino -, che chiedeva scossoni, tecniche di sopravvivenza e strategie di liberazione: bisognava “incrementare le capacità intellettuali e morali delle giovani donne in Ucraina”, spiegavano le Femen, “ricostruire l’immagine del Paese all’estero, da meta di turismo sessuale a Paese democratico”. Compagne, con la rivoluzione in testa e il riscatto femminile nel cuore.

Zhdanova tra Oksana Shachko (sx) e Sasha Shevchenko al Tribunale di Kiev il 28 luglio 2013

Zhdanova tra Oksana Shachko (sx) e Sasha Shevchenko al Tribunale di Kiev il 28 luglio 2013

VULNERABILE, CORAGGIOSA

Ma Oksana, anche solo ad osservarla nei video e soprattutto nel silenzio immobile delle fotografie, tradiva una specie di dolcezza, di ritrosia, di fragilità. Impastata con la spregiudicatezza. Gli stessi contrasti di cui parla chi la conosceva bene. Come Anna Goutsol, una delle cofondatrici del gruppo, che non la frequentava da un po’ ma che aveva diviso con lei lunghi tratti di strada e una prospettiva rigorosa, tra disciplina ed eccessi: “La più coraggiosa e la più vulnerabile” l’ha definita in apertura del lapidario post, lanciato su Facebook per comunicare la tragedia. “Piangiamo insieme ai suoi parenti e amici e ci aspettiamo per la versione ufficiale dalla polizia”, aggiungeva. Idealista certamente, innamorata del senso della lotta e delle sue ragioni emotive, passionali, intellettuali. Con l’animo di artista, però, prima che di combattente. O forse le due cose coincidevano, nella sua personale maniera di sentire.
Abbandonato il gruppo nel 2013 per screzi e contrasti interni – vedi le tensioni con l’attuale leader Inna Shevchenko, nota per il suo approccio autoritario, più politico e meno romantico – venne cacciata contestualmente dal suo Paese e trovò asilo in Francia. Qui si mise a dipingere, muovendosi tra ambienti underground, frequentando l’École des Beaux Arts, abitando in squat, iniziando a esporre le sue opere. Una vita dura, non agiata, da esule politica e da perenne inquieta. Nell’intimità della pittura, nella dimensione raccolta dell’atelier e nella vita consumata fra altri artisti, personaggi engagé, figure della scena parigina indipendente, trovò una direzione nuova a cui affidare il suo tormento, la sua rabbia. Ma non guarì. Tentò il suicidio due volte. A vuoto. La terza fu fatale.

La locandina del documentario di Alain Margot I am Femen

La locandina del documentario di Alain Margot I am Femen

STORIE DI FEMMINISMO, TRA SPETTACOLO E LOTTA

Nessuna mediazione nella sua giovane esistenza. Non nell’esperienza col collettivo femminista più discusso degli ultimi dieci anni (insieme a quello delle russe Pussy Riot), non nelle scelte quotidiane, non nel modo in cui ha voluto uscire di scena. Estrema fino alla fine. “Siete finti”, aveva scritto nel suo ultimo messaggio su Instagram. La ricerca ideale dell’autentico – e dunque dell’assoluta libertà – per certi animi si tramuta in una strada senza uscita.
Il femminismo di Oksana, finché restò con le sue compagne, fu senza mezzi termini, spettacolare, esibizionista, aggressivo. Sulla scorta di un’istanza che unì, lungo tutto il Novecento, eserciti di donne occidentali schiacciate da secoli di maschilismo e di cultura patriarcale. Roba che oggi appare vetusta, superata da conquiste conclamate, interiorizzata dalle nuove generazioni, condivisa sul piano del buon senso, della logica comune. E anche del diritto. Un femminismo che finisce fra i cimeli imbevuti d’ideologia. E che però ancora funge da monito, da esempio alto e irrinunciabile memoria. Continuando a svolgere in certi casi e in certi territori, in certi luoghi del non detto e del non visto, la sua funzione di detonatore: non tutto è compiuto, non tutto è risolto. La potente rivoluzione culturale che iniziò a livellare la distanza tra i sessi e a contestare il gioco della sottomissione, lascia dietro di sé vuoti e frustrazioni, codici da reinventare, automatismi, stereotipi e storture da spazzare via con decisione.
Le Femen – fenomeno non scindibile dai difficili territori di provenienza e dalle relative istanze, utopie, rivendicazioni – affrontavano tutto questo dalla parte dell’esuberanza, del manierismo, dello show, della radicalizzazione. Per arrivare a tutti, con veemenza. Rabbia esibita in piazza, insieme a una simbolica nudità. Seni al vento, slogan urlati in faccia ai potenti o dipinti sulla pelle, irruzioni in strada o dentro spazi istituzionali. Un approccio che fa male alla causa o che è in grado di stimolare una coscienza critica e agevolare processi di emancipazione?

BASTA BERLUSCONI

Impossibile dimenticare azioni come quella contro un imbarazzato Silvio Berlusconi, raggiunto lo scorso 4 marzo nel suo seggio elettorale di Milano: “Sei scaduto!” gli urlava con nevrotica ostinazione l’attivista Melodie Mousavi Nameghi, strizzata in un paio di leggins, senza t-shirt né reggiseno. Fermata (con difficoltà) dalla polizia, è stata poi denunciata per disordini all’interno di un seggio elettorale e resistenza a pubblico ufficiale: per 5 anni non potrà entrare in Italia. Una scena simile si era vista nel 2013, sempre durante il voto per le Politiche, quando la stessa Oksana, insieme a due compagne, attese il leader di Forza Italia in mezzo a un capannello di giornalisti, gridando e mostrando sul seno la scritta “Basta Berlusconi”. La polizia le bloccò con modi bruschi, tentando di trascinarle via di peso.
E poi le proteste contro Vladimir Putin, contro il Clero, contro il partito di Marine Le Pen. Fascismo, razzismo, nazionalismi, bigottismi, regimi autoritari, contenimento dei diritti civili e delle libertà individuali, aborto illegale e mercato sessuale: il nemico delle Femen aveva un volto molteplice, se pure fortemente modulato intorno alla questione femminile. Ancora una volta il corpo si dava come spazio politico e strumento di rivendicazione. Nel 2017, di nuovo in Italia, avevano preso di mira la religione cattolica: nel giorno di Natale un’attivista – rigorosamente in topless – provò a strappare la statua di Gesù Bambino dal presepe in Piazza San Pietro, a Roma, gridando “Dio è donna”. Soliti strepiti, calci e colluttazioni con gli agenti di polizia.
La sensazione è quella di un teatro inutilmente urlato, ma non realmente provocatorio, senza lo spessore e l’ingegno dell’arte e della letteratura. Pornografia (non certo per gli innocenti seni al vento) e isteria della battaglia, lasciando dubbi su una certa gratuità, nonostante le interessanti connessioni con quell’estetica di area sovietica tipicamente sovversiva, estremista, antisistema, che mescola impegno politico, punk e ricerca performativa.

Uno dei dipinti di Oksana Shachko

Uno dei dipinti di Oksana Shachko

LA PITTURA

Quando Oksana usava colori e pennello la sua lotta si trasfigurava. E tornavano pagine di vecchi libri, figure rubate da chiese e cattedrali, altarini domestici o studi di iconografia medievale. Tornava il senso delle origini, con i grandi riferimenti visivi e spirituali, non senza stravolgere i codici in favore del proprio immaginario. Oksana dipingeva esclusivamente soggetti ispirati alla tradizione delle icone russe: decine di quadri fondo oro, in cui la figura della donna era sempre protagonista, tra cavalli alati color latte o rosso fuoco, decorazioni sfarzose, scorci di paesaggi fantastici e sfilze di simbologie sacre. Un lavoro minuto, eccentrico, ingenuo, sfacciatamente distante dal contemporaneo, volutamente naïf, più intimo e intimista che non realmente significativo dal punto di vista della ricerca, eppure non privo di una qualche strano appeal visionario. In apparenza così distante dal quell’universo abituale di provocazioni e di contestazioni anarchiche, scagliate contro ogni forma di autorità e riferimento dogmatico. E nelle piccole tavole dipinte con cromie squillanti, la sovversione e la rivisitazione della figurazione religiosa non hanno più il sapore del grido o della beffa.
C’è un’altra Oksana in questa collezione di icone irregolari. Oltre le Femen, oltre l’ideologia, nelle tensione dell’immagine e nella possibilità della forma, cercando alfabeti visivi che alla lunga, però, si sono zittiti. Piombati nel silenzio di un appartamento di Montrouge, nel mezzo di un’estate parigina. L’ultima, per la pasionaria ucraina che aveva scelto la via della rivolta diversamente armata: prima col corpo, poi col colore, infine praticando l’esercizio crudele della sparizione.

Helga Marsala

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Helga Marsala

Helga Marsala

Helga Marsala è critica d’arte, editorialista culturale e curatrice. Ha insegnato all’Accademia di Belle Arti di Palermo e di Roma (dove è stata anche responsabile dell’ufficio comunicazione). Collaboratrice da vent’anni anni di testate nazionali di settore, ha lavorato a lungo,…

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