Il tuo libro ha un titolo in forma di domanda: Perché l’Italia non ama più l’arte contemporanea? Naturalmente non posso che chiederti di esporci brevemente la risposta che hai cercato di fornire. Con uno spunto: è l’Italia che non l’ama più (intesa come Stato, amministrazioni, politica ecc.) o sono gli italiani ad aver smesso di farlo?
Alla fine del diciannovesimo secolo l’Italia, Paese unito da pochi decenni, lancia la Biennale di Venezia, modello di mostra internazionale di grande successo. Negli stessi anni viene istituita la Galleria Nazionale d’Arte Moderna a Roma, e all’alba del secolo seguente si aprono la Gam di Bologna e Cà Pesaro a Venezia. Allora lo Stato italiano arricchisce le sue collezioni con opere di Gustav Klimt, Auguste Rodin, Medardo Rosso, Marc Chagall e altri. Un secolo dopo, all’alba del XXI secolo, i nostri artisti non sono sostenuti né difesi da un Paese che sembra aver voltato le spalle alla contemporaneità: le grandi mostre di maestri come Alberto Burri e Alighiero Boetti sono promosse da musei stranieri, e curate da curatori non italiani.
Quali sono le ragioni, secondo te?
I nostri musei di arte contemporanea non hanno i mezzi per competere con i loro omologhi esteri, e la nostra classe politica ignora gli artisti emergenti, che per sopravvivere devono andare a lavorare all’estero. Un disinteresse che riassumerei con due frasi celebri in quanto paradossali: “L’arte italiana si ferma a Tiepolo”, pronunciata da Antonio Paolucci, allora ministro dei Beni Culturali, e “con la cultura non si mangia”, attribuita a Giulio Tremonti, ex ministro dell’Economia. Forse non sapeva che l’indotto della Biennale Arte porta a Venezia più di 20 milioni di euro, che non è poco! La triste verità è questa: nell’Italia degli Anni Zero l’idea che la cultura possa costruire il prestigio e la serietà di una nazione è scomparsa. Mentre il mondo intero punta sul contemporaneo, l’unico artista che l’Italia continua a promuovere è Michelangelo Merisi da Caravaggio. È paradossale pensare che Maurizio Cattelan non abbia mai avuto una mostra antologica nel nostro Paese, dove ancora oggi molte persone lo ritengono un abile ciarlatano, e non un artista di livello internazionale.
L’arte contemporanea, come in ogni epoca, si porta dietro molte problematiche: propone visioni alle quali non siamo abituati, non ha dalla sua parte il favore della decantazione e della selezione che naturalmente avviene col tempo e via dicendo. C’è però un problema strutturale nell’arte dell’ultimo secolo: l’aver abbandonato, almeno in alcune sue espressioni, il principio di piacere, come dice Vincenzo Trione. È dunque condannata a essere elitaria, o meglio riservata a una cerchia ristretta?
Non siamo mai riusciti, per ragioni diverse e complesse, a dare al contemporaneo una struttura istituzionale, a differenza della Francia o della Spagna. L’idea che l’arte di oggi sia basata su linguaggi innovativi rispetto a quella del passato non è entrata nel sentire comune, proprio per la mancanza di istituzioni museali forti e credibili. L’assenza di musei di livello internazionale paragonabili alla Tate Modern, al Pompidou o al Reina Sofia, che rappresentano la Gran Bretagna, la Francia e la Spagna sulla scena culturale mondiale, ha penalizzato l’Italia, che non è stata capace di affermarsi come una nazione del presente e si è rifugiata in un’immagine di territorio del passato, che funziona ancora piuttosto bene per il turismo ma non è sufficiente per costruire l’immagine di una nazione che produce cultura , come avevamo fino alla fine degli Anni Settanta. Eppure gli strumenti ci sono: la Biennale, la Quadriennale, la Direzione per l’Arte Contemporanea del MiBACT, l’associazione Amaci. Con una strategia consapevole e ben orchestrata insieme alle fiere italiane e alle fondazioni private ci vorrebbe poco a riportare l’arte italiana sul palcoscenico mondiale. Bisogna abbattere i personalismi e fare sistema: insieme si vince, da soli si perde.
L’approccio concettuale, ma anche quello documentario, in molti casi prende il sopravvento sulla perizia tecnica. L’idea prevale sulla mano. Ne conseguono i vari “lo potevo fare anch’io” e le tirate in stile o tempora, o mores. Proviamo non tanto a difendere l’arte contemporanea, ma a capire dove hanno ragione gli apocalittici – penso alla lignée che in Italia è ben rappresentata da Settis e Montanari, e in ambito internazionale da Hughes e Clair, per fare due nomi che ricorrono nel recentissimo Contro le mostre di Trione e Montanari. Perché i problemi ci sono eccome nel “sistema dell’arte”, giusto?
Credo che l’arte sia stata sempre frutto di un pensiero e mai di una perizia tecnica. Del resto, il primo artista concettuale è stato un italiano, Leonardo da Vinci, al quale è attribuita la frase “la pittura è cosa mentale”. L’arte è più complessa di quanto sembri, necessita di attenzione e di studio, molto al di là di un superficiale giudizio estetico. Come ho spiegato nel mio saggio precedente, Arte come identità, il rapporto tra l’arte come rappresentazione del potere politico faceva parte del DNA della nostra penisola dall’antichità fino all’epoca fascista. Nel dopoguerra questo circolo virtuoso è stato interrotto per ragioni politiche, così abbiamo perso l’elemento costitutivo della nostra identità. Con questo libro ho voluto dimostrare che siamo stati il Paese dell’arte fino al secolo scorso e oggi non lo siamo più.
Parliamo della Biennale di Venezia. Nell’intervista al ministro Franceschini che apre il tuo libro, proponi di far fare al direttore della mostra internazionale uno studio visit lungo tutto lo Stivale per conoscere gli artisti italiani. Il ministro risponde in sostanza che per gli italiani c’è il Padiglione nazionale. Risposta sensata, per certi versi, ma che lascia aperta la questione: perché, parafrasando il titolo del libro, nessuno ama più l’arte contemporanea italiana?
Le questioni sono diverse e non sovrapponibili. La preoccupante diminuzione della presenza di artisti italiani nelle grandi mostre internazionali ‒ fenomeno al quale ho dedicato l’ultimo capitolo del libro ‒ come le Biennali e la Documenta, riguarda la nostra incapacità di far conoscere al mondo dell’arte internazionale il lavoro dei nostri talenti emergenti. Poche pubblicazioni in lingua inglese, rarissime le mostre in musei stranieri, scarsi i contatti tra le nostre istituzioni museali e quelle estere: questi fattori e tanti altri hanno reso gli artisti italiani più rari dei Panda sulla scena globale. Se fossimo un Paese convinto della qualità della sua arte e non malato di esterofilia, offriremmo ai curatori stranieri della Biennale di Venezia la possibilità di conoscere de visu il lavoro dei nostri migliori talenti, che hanno soltanto questa vetrina istituzionale per farsi notare da direttori e curatori stranieri. Ma fino ad oggi non è stato così: l’Italia non chiede ai curatori stranieri un riguardo per i nostri artisti, e non ci sarebbe nulla di strano nel farlo, anzi. Come disse una volta Charles Guarino, publisher di Artforum, “le comunità forti difendono i propri artisti”. Cosa aspettiamo a farlo?
Tu cosa proponi?
Il Padiglione Italia, che dipende dal MiBACT, è territorio nazionale: il curatore viene nominato dal ministro e le sue scelte sono del tutto indipendenti da quelle del curatore della mostra internazionale, dove peraltro negli ultimi anni si registra un’allarmante diminuzione del numero degli italiani invitati. Quest’anno, grazie alla riduzione del numero degli artisti (da sedici a tre) e all’eccellente lavoro di Cecilia Alemani, l’Italia ha uno dei padiglioni più interessanti. Sarebbe ideale arrivare a presentare il lavoro di un solo artista, in modo da allinearsi alle proposte degli altri padiglioni nazionali e poter competere per il Leone d’Oro.
Perché secondo te si è cessato di sostenere l’arte prodotta nel nostro Paese, proprio in quegli Anni Novanta in cui sono spuntati come funghi musei d’arte contemporanea? Possibile che gli amministratori pubblici siano stati colpiti tutti da una miopia che ha fatto pensare loro che bastassero i contenitori e che i contenuti li avremmo presi da altrove?
La sfida della globalizzazione ha premiato sistemi forti, seri e credibili e nazioni che credono che sostenere la propria arte sia un compito pubblico di primaria importanza. In una competizione mondiale sempre più affollata, il sistema Italia per la cultura fa acqua da tutte le parti, e non solo per le arti visive. La classe politica, non all’altezza di compiti così complessi e affetta da un provincialismo ormai congenito, non punta alla qualità e preferisce guardarsi l’ombelico piuttosto di affrontare a testa alta la scena mondiale. Per i nostri politici, alla perenne ricerca di un consenso facile e immediato, l’arte non è un elemento di prestigio né uno status identitario per un Paese che non è consapevole della forza culturale ‒ ed economica ‒ degli artisti contemporanei.
C’è qualcuno che, invece, crede ancora nell’arte italiana?
Per fortuna questa assenza, denunciata nel mio libro, è compensata da alcuni imprenditori privati illuminati e lungimiranti ‒ penso a Miuccia Prada e a Patrizia Sandretto Re Rebaudengo ‒ che sostengono il contemporaneo con passione e coraggio, attraverso l’attività di collezioni e fondazioni che compensano lo scarso impegno di uno Stato il quale, attivo e lungimirante alla fine del diciannovesimo secolo, sembra aver dimenticato il compito di educare il proprio popolo all’arte del presente. Del resto, se non sono interessati loro alle sfide del contemporaneo, come si può pensare che possano interessare gli altri?
Cosa pensi dell’operazione che stanno portando avanti Nardella e Risaliti a Firenze? Parlo delle già celeberrime installazioni in piazza della Signoria e sulla facciata di Palazzo Strozzi, ma anche – e soprattutto – della mostra diffusa Ytalia.
Credo che lo sforzo di portare il contemporaneo in una città come Firenze, aggrappata mani e piedi a un Rinascimento che è finito 500 anni fa, sia assolutamente encomiabile e lodevole. Ritengo però che il passo successivo possa essere quello di invitare gli artisti a realizzare opere site specific per Firenze, che possano costituire il nucleo di una collezione di contemporaneo paragonabile alle raccolte medicee. La vera sfida è questa, e forse la città è pronta per affrontarla.
Chiudiamo con tre giudizi (o previsioni) per tre neodirettori. Cristiana Collu alla ex GNAM di Roma, Lorenzo Balbi al MAMbo e Andrea Bruciati a Tivoli. Le persone giuste al posto giusto? Scommesse troppo azzardate? Primi passi condivisibili?
Cristiana, Lorenzo e Andrea sono colleghi che stimo e apprezzo da tempo. La prima ha dimostrato un coraggio notevole e una visione originale ed efficace, mentre gli altri due stanno lavorando su progetti interessanti. Mi auguro che la loro competenza sia rispettata e possa portare i migliori frutti alle istituzioni che dirigono.
La settimana dell’arte a Torino si avvia alla conclusione. Come valuti il sostegno e la presenza di artisti italiani in città, nei suoi musei, fondazioni, gallerie, fiere? Continuiamo a peccare di quel provincialismo paradossale, che crede basti un pizzico di internazionalità per non essere più provinciali, quando invece funziona esattamente al contrario?
Penso che l’art week di Torino sia un felice esempio di sinergie culturali cittadine da guardare con estrema attenzione, e mi sembra che la città risponda a queste sollecitazioni in maniera puntuale e dinamica. Gli italiani non mancano: l’antologica di Gilberto Zorio a Rivoli, Giulio Paolini ai Giardini Reali, Elisa Sighicelli a Palazzo Madama sono proposte articolate e puntuali. Artissima è un modello vincente, e la città lo ha capito: sarebbe interessante che questo modello venisse sviluppato non solo al Nord ma anche al centro e al sud, magari con manifestazioni diverse ma con la stessa energia e professionalità.
‒ Marco Enrico Giacomelli
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