Libri se ne leggono pochi, pochissimi: questo è un dato dal quale in Italia non riusciamo a distanziarci. Il che non significa che gli italiani non leggano: stanno compulsivamente di fronte allo schermo di smartphone, tablet, computer… Pro e contro ce ne sono a bizzeffe, anche non volendo andare per il sottile. Quel che fa rabbia è che le potenzialità ci sono eccome, ma vengono spesso dilapidate nella maniera più miope e talora truffaldina: con i quotidiani che spacciano per “grande evento” qualsiasi inserzione pubblicitaria più o meno ben mascherata (e magari invece tengono al guinzaglio stretto prodotti pazzeschi: si pensi a Origami, settimanale de La Stampa che esce il giovedì in 50 copie numerate e firmate dagli autori – scherziamo, ma la distribuzione è platealmente sbagliata), e gli editori che non capiscono o non vogliono capire cosa spesso hanno fra le mani, e preferiscono cercare il titolo “con un nome sicuro in copertina”. Dove quel nome, nella gran parte dei casi, non soltanto scrive per la 30esima volta lo stesso saggio o lo stesso romanzo, ma neppure fa numeri così strabilianti.
E allora si è costretti a fare quel che non si vorrebbe fare: ovvero rifugiarsi nel ghetto delle piccole, piccolissime, micro case editrici. Quelle coraggiose, fantasiose, inventive – le quali meriterebbero uno spazio nelle librerie-supermercato dove invece capita che l’editore sia anche il librario e magari pure il distributore: game, set, partita. Perché la soluzione non è certo il festival altrettanto di nicchia, che è interessante, divertente, stimolante, ma che non fa sbarcare il lunario a nessuno.
Quindi? Quindi si deve far affidamento sui più piccoli, nella solita (e spesso vana: siamo realisti) speranza nelle sorti future e progressive. Curioso, ora che ci pensiamo: spesso le case editrici più sperimentali sono proprio quelle dedicate ai bambini. Si dirà: perché poi l’adulto mi si struttura, mi si irrigidisce, mi è stanco e mica vuole impazzire dietro a strabilianti soluzioni cartotecniche e a peripezie linguistiche e narrative. Col risultato che l’uovo rotola sulla gallina e la stritola, senza nemmeno rompersi. Così abbiamo deciso di considerare due esempi, senza utilizzare un criterio di chissà quale complessità. Perché – senza naturalmente nulla togliere ai due editori di cui vi parleremo a breve – altri esempi abbondano, e le ragioni le abbiamo appena accennate. Ma perché per essere più liberi tocca essere più piccoli (di età, di taglia aziendale)?
VERBAVOLANT
Cominciamo da VerbaVolant di Siracusa. Ma vi pare che nel Chi siamo, sul loro sito, ci mettano un testo così? “La VerbaVolant ha sede a Siracusa, alla Borgata, un quartiere costruito nella seconda metà dell’800, fuori dall’isola di Ortigia, chiamata affettuosamente ‘u Scogghiu’ dai vecchi siracusani. Il quartiere si è sviluppato intorno alla basilica di Santa Lucia extra moenia, un bell’edificio del XII secolo dedicato alla patrona della città, e la nostra sede dista solo pochi metri dalla piazza dove è situato”. Per non parlare dell’intervista impossibile del peluche-mascotte all’editore, anzi, all’editrice. Ma loro niente, sono convinti: “Per lavorare abbiamo bisogno della luce del nostro sole e dell’odore del nostro mare che scandisce le giornate quando è increspato dallo scirocco, quando è sereno e invitante o quando è nero e gonfio di tempesta. Comunque abbiamo anche un certo gusto per le sfide, ecco perché abbiamo scelto di rimanere, al contrario di parecchi nostri coetanei”. Con tutto il rispetto, ancora una volta, per chi ha deciso di lasciare questo sciagurato Paese: viene voglia di comprarne venti copie di ogni libro che stampano, a questi di VerbaVolant.
A proposito: ma cosa stampano. Beh, ci sono parecchie collane. Qui però vi vogliamo raccontare dei… Libri da parati. Immaginatevi un contenitore fustellato, che significa una sorta di scatola in cartoncino costituita da un unico foglio piegato. Mica tanto spessa: qualche millimetro; lo stretto necessario per avere, oltre alla copertina e alla quarta di copertina, anche un dorso. Poi aprite: un’ala a sinistra, quella dopo in alto, quella dopo ancora a destra, l’ultima in basso. Bene, avete aperto la scatola (sembra l’audio di una puntata di Art Attack). E dentro cosa ci trovate? Una pagina illustrata, che magari inizia col più classico dei “C’era una volta…”. Delusione: siamo tornati alla consuetudine più consumata. E invece. Finita la prima pagina, la girate, e già qualcosa dovrebbe non tornarvi: perché, raddoppiata l’area (ora avete di fronte a voi una doppia pagina), aumenta anche la grandezza delle lettere. Appena un paio di punti, ma notare si nota. E così via: nel senso che aprite un’altra volta (quadrupla pagina), un’altra volta (si dirà ottupla?) e un’altra volta ancora (sedicestupla? decisestupla?). Alla fine avete un poster di 70 x 100 centimetri, e se acquistate tutti i libri della collana, beh, ci potete tappezzare… ah, ecco perché Libri da parati.
LES CERISES
Atto secondo. Les cerises. Le ciliegie. Si chiama così la casa editrice, ed è giovanissima. Il logo sono due ciliegie, ovviamente, coi rispettivi piccioli uniti. Tanto romanticismo – ma anche quel pizzico di amarezza con la quale Rui, il giovane protagonista de Il ritorno di Dulce Maria Cardoso, al rientro forzato dall’Angola a Lisbona scopre che le ragazze della “madrepatria” non sempre portano orecchini in quella foggia. Ma passiamo oltre.
Cosa fanno les cerises? Si sono messe in testa – tutte donne, o quasi, come al solito: Angelika Burtscher, Agnese e Cecilia Canziani, Daniele Lupo – di invitare artisti, designer, architetti e illustratori a scrivere un libro per bambini. Con due semplici requisiti: non averlo mai fatto prima; non usare parole, ovvero fare dei silent book. Semplice no? Poi pure loro son fissati con i luoghi, ma all’esatto opposto dei siracusani di VerbaVolant: “les cerises è a Parigi, ma anche a Roma, a Bolzano e in tutta Europa; è dappertutto ed è per tutti: plurilingua e senza frontiere”. Andrebbe studiato questo interesse per i luoghi negli editori degni di questo nome, che siano locali, globali o glocali.
Per ora, intanto, le ciliegie di libri ne hanno fatti tre. Uno all’anno: 2015, 2016, 2017. Il primo: Storie di una balena di Emanuele Olivieri, poche pagine raccolte da una rilegatura a filo blu mare, tantissime storie da inventare – tanto le parole non ci sono. Il secondo: Psssst Psssst di Chiara Camoni, con i cartoncini color panna e sopra ogni volta due animali, la rilegatura a spirale e un foglio in plastica trasparente, verde, staccabile, con il misterioso invito “guarda gli animali attraverso il cerchio”. Il terzo: New York City Babe di Antonio Rovaldi, un libro oblungo e orizzontale che inizia con una scarpa per strada senza piede dentro, una scarpa graffita su un muro, scarpe calzate e inquadrate da una strana struttura metallica, un’orma… e via così, fino al vapore che si confonde con le nuvole.
Compratelo, l’ultimo libro di Bruno Vespa o quello di Benedetta Parodi o di Fabio Volo, compratelo…
‒ Marco Enrico Giacomelli
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #40
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